lunedì 19 settembre 2016

QUANDO IL VIAGGIO FINISCE


Ho pensato di spendere qualche riga su un passaggio importante del processo terapeutico che forse non viene tenuto abbastanza in considerazione: la chiusura.
Si parla molto del processo terapeutico, dell’importanza dell’alleanza per innescare il cambiamento, aspetti sicuramente importanti; meno risalto viene dato al momento in cui si decide di portare a termine il percorso.

Si perché il lavoro terapeutico può essere paragonato a un viaggio: il paziente sceglie il mezzo (l’approccio che il terapeuta segue) e insieme al conducente (il terapeuta che ha gli strumenti e le competenze) intraprendono un viaggio. La meta (ciò che il paziente desidera ottenere dal lavoro su di sé) è concordata all'inizio in maniera esplicita o a volte è sottintesa; il percorso potrà subire variazioni in base all'effetto che ogni tappa che si raggiunge sortisce sul paziente. Il percorso può durare secondo i calcoli matematici un tot ma non sempre la regola è valida quando si intraprende un lavoro su di sé; l’accordo tra chi guida e il passeggero è quello di arrivare alla meta.

Chiudere la terapia vuol dire arrivare a una meta:  arrivare a un cambiamento, a una comprensione, a una risoluzione o anche a un “semplice” contenimento in base al tipo di richiesta fatta. La meta non è qualcosa di teorico o pomposo; essa è pratica, semplice e a valore nel caso del singolo paziente e della sua storia.
Scrivo tutto ciò come premessa per affermare l’importanza della chiusura che può assumere il valore di metro su cui valutare l’effettiva crescita del paziente e la riuscita di una terapia.
Chiudere  in maniera adulta e paritaria implica dunque lo spendere del tempo (almeno un incontro) a fare il punto della situazione rispetto a quali acquisizioni si sono raggiunte e quali cambiamenti si sono messi in opera.
La chiusura rappresenta in questi termini un modo per cristallizzare il cambiamento e soprattutto per riconoscerlo.
 Dico questo in quanto ho potuto notare come alcuni pazienti dopo aver fatto un discreto lavoro su di sé si siano boicottati ponendosi in una posizione down nella quale ogni risultato ottenuto fino a quel momento è stato completamente svalutato per potersi dire quanto tutto  fosse inutile. Il risultato era il confermarsi la propria impossibilità  (non voglia) di cambiare. Questo succede ad esempio quando si sta arrivando a un punto importante e cambiare spaventa; affrontarlo in terapia permette di prendere coscienza dell’autosabotaggio  e di conseguenza di superarlo.
Andarsene senza confronto vuol dire scegliere di restare dove si afferma di non volere essere!
Chiudere la terapia è una conquista e non una tragedia come altri vivono: trovare escamotage come il periodo di vacanza, il viaggio ecc. per sparire ed evitare di dire che ci si vuole fermare non è sinonimo di maturità ma evidenzia una concezione errata del rapporto con il terapeuta.  Affrontare l’argomento della chiusura è naturale, prima o poi va fatto e non deve essere vissuto con timore anzi.
Posso affermare che noi terapeuti siamo per lo più felici di accompagnare per l’ultima volta alla porta un paziente: poter augurargli il meglio, ricordargli  quanto è riuscito a fare durante il viaggio insieme ha più valore di quel che si può immaginare.
D'altronde in ogni viaggio c’è un inizio, uno svolgimento e una fine e  non mi resta che augurare a tutti coloro che affrontano un simile percorso un buon viaggio!


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