Ho pensato di spendere
qualche riga su un passaggio importante del processo terapeutico che forse non
viene tenuto abbastanza in considerazione: la chiusura.
Si parla molto del
processo terapeutico, dell’importanza dell’alleanza per innescare il
cambiamento, aspetti sicuramente importanti; meno risalto viene dato al momento
in cui si decide di portare a termine il percorso.
Si perché il lavoro
terapeutico può essere paragonato a un viaggio: il paziente sceglie il mezzo (l’approccio
che il terapeuta segue) e insieme al conducente (il terapeuta che ha gli
strumenti e le competenze) intraprendono un viaggio. La meta (ciò che il paziente
desidera ottenere dal lavoro su di sé) è concordata all'inizio in maniera esplicita
o a volte è sottintesa; il percorso potrà subire variazioni in base all'effetto
che ogni tappa che si raggiunge sortisce sul paziente. Il percorso può durare
secondo i calcoli matematici un tot ma non sempre la regola è valida quando si
intraprende un lavoro su di sé; l’accordo tra chi guida e il passeggero è
quello di arrivare alla meta.
Chiudere la terapia
vuol dire arrivare a una meta: arrivare
a un cambiamento, a una comprensione, a una risoluzione o anche a un “semplice”
contenimento in base al tipo di richiesta fatta. La meta non è qualcosa di
teorico o pomposo; essa è pratica, semplice e a valore nel caso del singolo
paziente e della sua storia.
Scrivo tutto ciò come
premessa per affermare l’importanza della chiusura che può assumere il valore
di metro su cui valutare l’effettiva crescita del paziente e la riuscita di una
terapia.
Chiudere in maniera adulta e paritaria implica dunque lo
spendere del tempo (almeno un incontro) a fare il punto della situazione rispetto
a quali acquisizioni si sono raggiunte e quali cambiamenti si sono messi in
opera.
La chiusura rappresenta in questi termini un modo per cristallizzare il
cambiamento e soprattutto per riconoscerlo.
Dico questo in quanto ho potuto notare come
alcuni pazienti dopo aver fatto un discreto lavoro su di sé si siano boicottati
ponendosi in una posizione down nella quale ogni risultato ottenuto fino a quel
momento è stato completamente svalutato per potersi dire quanto tutto fosse inutile. Il risultato era il confermarsi
la propria impossibilità (non voglia) di
cambiare. Questo succede ad esempio quando si sta arrivando a un punto
importante e cambiare spaventa; affrontarlo in terapia permette di prendere
coscienza dell’autosabotaggio e di
conseguenza di superarlo.
Andarsene senza confronto vuol dire scegliere di
restare dove si afferma di non volere essere!
Chiudere la terapia è
una conquista e non una tragedia come altri vivono: trovare escamotage come il
periodo di vacanza, il viaggio ecc. per sparire ed evitare di dire che ci si
vuole fermare non è sinonimo di maturità ma evidenzia una concezione errata del
rapporto con il terapeuta. Affrontare l’argomento
della chiusura è naturale, prima o poi va fatto e non deve essere vissuto con
timore anzi.
Posso affermare che noi
terapeuti siamo per lo più felici di accompagnare per l’ultima volta alla porta
un paziente: poter augurargli il meglio, ricordargli quanto è riuscito a fare durante il viaggio
insieme ha più valore di quel che si può immaginare.
D'altronde in ogni
viaggio c’è un inizio, uno svolgimento e una fine e non mi resta che augurare a tutti coloro che
affrontano un simile percorso un buon viaggio!
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