-
I risultati di alcune ricerche hanno dimostrato l’incidenza dei disturbi psicologici (ansia, depressione, ecc.) sul rendimento lavorativo del singolo e di conseguenza sul bilancio aziendale; ad esempio uno studio realizzato dal National Institutes of Mental Health (Istituto Nazionale delle Malattie Mentali) ha evidenziato come ogni lavoratore americano afflitto da disturbi bipolari in media perda 65 giorni di lavoro l’anno, rispetto ai 27 persi da chi soffre di depressione maggiore.A tali disturbi vanno affiancati quelli che hanno assunto il ruolo di “malattie dell’ambito lavorativo” come la sindrome da stress lavorativo, la sindrome del burnout, il mobbing, la dipendenza lavorativa.Il lavoro, oggi, non è considerato solamente come un’attività necessaria al sostentamento, ma è diventato anche un mezzo per affermarsi socialmente: bisogna essere veloci, efficienti, disponibili, sempre più bravi e preparati; quello che conta è il risultato, la produttività.Tutto ciò ha portato ad un accrescimento dell’identità lavorativa rispetto a quella personale.Lo stress da lavoroLo stress o Sindrome Generale di Adattamento (SGA) viene definito come “una risposta generale aspecifica a qualsiasi richiesta (demand) proveniente dall’ ambiente” (Seyle, 1975); esso rappresenterebbe quindi la normale reazione dell’individuo alle pressioni esercitate dall’ambiente (esterno o interno, fisico o psichico) e non necessariamente ha valore negativo. In alcuni casi, infatti, può contribuire a stimolare l’adattabilità di un individuo all’ambiente (eustress). Al contrario, se protratto nel tempo, genera scarso rendimento, disinteresse per il proprio lavoro, fuga dalle responsabilità ecc. (distress).Per quel che riguarda l’ambito lavorativo vediamo che lo stress è il risultato di un’interazione tra fattori organizzativi e fattori personali.Secondo il modello dell’Aggravio di lavoro – Job strain model (1) – lo stress lavorativo sarebbe causato soprattutto dalla combinazione di un eccessivo carico di lavoro e una scarsa possibilità di controllo sui compiti da svolgere. Quindi seppure in presenza di un carico di lavoro pesante, un lavoratore potrebbe non sentirsi stressato se percepisse di poter gestire nella maniera più opportuna tale carico.Il modello dello Squilibrio tra sforzo e ricompensa – Effort-rewards imbalance model (2) – ipotizza che lo stress lavorativo si riscontri in presenza di un elevato impegno da parte del lavoratore associato ad una scarsa ricompensa; che può essere intesa sia come guadagno economico, che come approvazione sociale, stabilità lavorativa o opportunità di carriera.Secondo la Commissione Europea, Direzione generale occupazione e affari sociali (3) i fattori più comuni che possono determinare stress legato all’attività lavorativa sono:- Quantità di lavoro da eseguire eccessiva oppure
insufficiente.
- Tempo insufficiente per portare a termine il
lavoro in maniera soddisfacente sia per gli altri che per se stessi.
- Mancanza di una chiara descrizione del lavoro da
svolgere o di una linea gerarchica.
- Ricompensa insufficiente, non proporzionale alla
prestazione.
- Impossibilità di esprimere lamentele.
- Responsabilità gravose non accompagnate da
autorità o potere decisionale adeguati.
- Mancanza di collaborazione e sostegno da parte di
superiori, colleghi o subordinati.
- Impossibilità di esprimere effettivamente talenti
o capacità personali
- Precarietà del posto di lavoro, incertezza
della posizione occupata.
- Condizioni di lavoro spiacevoli o lavoro
pericoloso.
- Possibilità che un piccolo errore o disattenzione
possano avere conseguenze gravi.
Nell’organismo di una persona sottoposta a stress si osservano modificazioni nell’equilibrio del sistema endocrino e di quello nervoso che coinvolgono una serie di ormoni come ad es. il cortisolo, l’adrenalina e la noradrenalina: queste modificazioni hanno una forte incidenza su tutto il sistema cardiovascolare. Lo stress abbassa inoltre l’efficienza del sistema immunitario ed aumenta la probabilità di disturbi gastrointestinali, malattie della tiroide, diabete e incrementa il rischio di insorgenza di tumori.Una manifestazione del disagio professionale che ha conseguenze sull’efficienza lavorativa è rappresentata dalla sindrome del “Burnout”, o “Sindrome dell’esaurimento emotivo“; che rappresenta una reazione patologizzata allo stress lavorativo e indica uno stato di insoddisfazione lavorativa, in termini fisici e psicologici, dovuta al mancato raggiungimento di un obiettivo prefissato. Si manifesta con apatia, frustrazione, mancanza di obiettivi e scarsa autostima, cui segue un forte senso di colpa dovuto all’incapacità di portare a termine i propri incarichi.Il burnout si manifesta con frequenti e persistenti emicranie, disturbi gastrointestinali, insonnia, eccessiva stanchezza; e con una serie di sintomi, che vanno dalle frequenti influenze ai dolori lombari, alla tachicardia e nausea.
Dal punto di vista psicologico si manifestano atteggiamenti quali volubilità, inclinazione all’isolamento, bassa stima di sé, sensi di colpa, rabbia e risentimento, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, fino ad arrivare a paranoia, esaurimento, depressione e una propensione all’uso di sostanze stupefacenti, farmaci o alcool. Nei casi più gravi, stati depressivi possono condurre alla malattia mentale e a pensieri suicidi. Chi ne è colpito è oltretutto incapace di chiedere aiuto, e ciò evidenzia la mancanza di un riscontro sul piano sociale.Tra i più comuni fattori di stress sul lavoro figura il mobbing, una violenza psicologica sul lavoro (non necessariamente a sfondo sessuale) provocata dal deteriorarsi delle relazioni interpersonali e da anomalie organizzative; una sorta di comunicazione conflittuale sul posto di lavoro, che avviene tra colleghi o tra superiori e dipendenti, nella quale la persona attaccata viene posta in una condizione di debolezza ed aggredita ripetutamente in maniera esplicita o implicita per un prolungato periodo di tempo con lo scopo preciso di mandarla via dal posto di lavoro. Gli attacchi mirano a colpire la capacità di autonomia e d’iniziativa delle vittime e a renderle insicure di sé e della propria professione: in poco tempo l’autostima vacilla e nasce il dubbio per la validità del proprio operato. Oltre a ledere il rendimento lavorativo le conseguenze del mobbing portano addirittura al suicidio, all’incirca nel 20% dei casi.Un’ ulteriore causa di stress lavorativo è la dipendenza lavorativa che tutt’oggi è ancora un fenomeno sottovalutato e poco riconosciuto nell’ambito del disagio psicologico con la conseguenza di una diagnosi in fase avanzata solitamente in seguito ad infarti o ad altre gravi malattie.Ne è maggiormente colpito il lavoratore competitivo, che ha una attitudine spiccata alla supremazia e all’autoaffermazione; il lavoratore ambizioso e orientato al successo, instancabile, indirizzato verso modelli di perfezione e grandi responsabilità.Chi è predisposto a questa dipendenza solitamente considera il lavoro come l’unica opportunità per vivere le interazioni sociali divenute precarie per via degli impegni quotidiani: le ore dedicate agli straordinari possono rappresentare un modo per evitare la solitudine o l’assenza di un nucleo familiare. C’è chi si dedica anima e corpo al lavoro per sottrarsi ad un disagio sentimentale o familiare o chi nutre la propria autostima solo attraverso conferme e riconoscimenti sociali o ancora chi si lascia sovraccaricare di lavoro per un bisogno di auto-punizione. Chi soffre di questa dipendenza, si porta il lavoro in vacanza o nei fine settimana, non si assenta mai né per necessità né per malattia, può avere crisi di astinenza, provare sensazioni di vuoto angoscia e nervosismo quando è lontano dal lavoro, può avere paura di perdere il lavoro, incubi relativi a errori o insuccessi e spesso è incapace di ritagliarsi del tempo per svaghi e divertimenti; automaticamente, nonostante il lavoro occupi l’intera vita di questi individui il rendimento è piuttosto scarso.
Andiamo ad analizzare quali sono le modalità per controllare e risolvere lo stress lavorativo e di conseguenza aumentare la propria efficienza lavorativa.- Acquistare consapevolezza dei
fattori che creano stress, valutando le fonti e dove è possibile
intervenire urgentemente.
- Valutare il proprio grado di coinvolgimento nel lavoro,
consapevoli che il posto di lavoro non deve sostituire il nucleo familiare e che investire
troppo dal punto di vista affettivo è pericoloso.
- Modificare la valutazione cognitiva
dell’ambiente, riconoscere la differenza tra le cose che si
possono controllare e quelle che non si possono controllare. È necessario
chiedersi a riguardo come stiamo vivendo la situazione fonte di stress e
se esistono modalità alternative di affrontarla (in questa situazione è
possibile appoggiarsi ad un amico, ad uno psicologo, al partner).
- Rivedere la scala di valori,
dando il giusto peso a ciò che esiste al di fuori del lavoro come la
famiglia, gli amici e gli altri interessi. Ambiti in cui le soddisfazioni
possono compensare lo stress da lavoro.
- Pianificare le attività, imparare
a delegare tutto ciò che è delegabile e a distinguere tra cose importanti
e cose meno urgenti.
- Realizzare Tecniche di Hatha Yoga, tecniche
di rilassamento e di concentrazione e meditazione: l’applicazione
di tale disciplina, infatti, agisce in maniera sinergica sui vari aspetti
che risultano “colpiti” dallo stress portando alla riduzione e
all’eliminazione dell’uso di farmaci.
Le posture permettono di ristabilire l’equilibrio fisico eliminando i vari disturbi somati come emicranie, disturbi gastrointestinali, dolori lombari, e ristabiliscono inoltre l’equilibrio ormonale.Le tecniche di rilassamento permettono un recupero rapido delle energie e l’acquisizione di uno stato di distensione totale sia fisica che psichica.Le tecniche di concentrazione e meditazione permettono di amplificare la capacità di focalizzazione mentale, la concentrazione, l’attenzione e la memoria; oltre a favorire l’eliminazione degli stati di irascibilità, risentimento e sensi di colpa.A tale proposito ho potuto notare che realizzare delle sedute di yoga nell’ambito lavorativo (ad es. durante la pausa pranzo o al termine del turno lavorativo) oltre a favorire un processo individuale di recupero e armonizzazione delle energie, permette di creare tra i partecipanti (colleghi) nuove modalità di interazione e di condivisione che possono portare al superamento di alcune dinamiche lavorative spiacevoli.- Fare delle pause nel
corso della giornata, per cercare di riprendere il contatto con se stessi:
realizzare una passeggiata in natura, può essere molto rigenerante e
permette di tornare al lavoro con rinnovata energia e lucidità, inoltre
l’esercizio fisico costante libera endorfine endogene, una sorta di “droga
naturale” che aiuta a sentirci meglio, e ci aiuta a prevenire sia i danni
cardiovascolari che quelli muscolo-scheletrici dovuti allo stress
lavorativo
- Prendersi cura di sé stessi e
del proprio corpo: curare l’ alimentazione e prevedere degli adeguati
periodi di riposi.
- Orientare la propria attenzione anche ad altre attività (gruppi
di volontariato, associazioni culturali…) che permettono di ottenere nuove
gratificazioni e soddisfazioni.
- Pensare positivo : prendere
nota dei successi lavorativi e imparare a ricompensarsi. È importante
imparare a porsi degli obiettivi a breve termine e a sentirsi soddisfatti
quando vengono raggiunti. Cercare di non considerare le critiche come un
attacco personale bensì come un’opportunità di crescita.
- Coltivare l’humor, sia
riguardo sé stessi che riguardo le situazioni da affrontare.
- Quantità di lavoro da eseguire eccessiva oppure
insufficiente.
sabato 29 marzo 2014
Stress lavorativo e Yoga: una modalità pratica per migliorare la propria efficienza
mercoledì 26 marzo 2014
La Relazione Terapeutica.Quaderni tecnici per gli addetti ai lavori: Terza parte
Guidano &
Liotti affermavano che “La relazione terapeutica è un rapporto reale
nella vita del paziente e può essere l'elemento che più di ogni altro influisce
sull'efficacia e l'incisività dell'intervento” (Guidano & Liotti,
1979).
Rogers
parlava di relazione terapeutica come “elemento
curativo di base” (Rogers, 1951); e sosteneva che il terapeuta, al fine di
facilitare il cambiamento, deve porsi con un atteggiamento empatico, astenersi
dai giudizi ed essere genuino (Rogers 1957).
Questo modo
di intendere la relazione terapeutica è molto vicino ai concetti dell'Analisi
Transazionale, ovvero che “ognuno è Ok”, ognuno ha la capacità di pensare,
ognuno decide del proprio destino e queste decisioni possono essere cambiate
(Steward & Joines, 1990). Partendo da questi presupposti il lavoro
terapeutico, visto come una relazione collaborativa in cui entrambi mettono in
campo le rispettive risorse e competenze, deve essere teso a far sì che il
cliente recuperi la propria consapevolezza, spontaneità, intimità e quindi la
propria autonomia (Berne, 1964).
Ritengo che
tali affermazioni evidenziano il valore della relazione in sé nel lavoro
terapeutico e nel processo di cambiamento; e come l’istaurarsi di un rapporto
paritario basato sul rispetto reciproco, sulla fiducia e cooperazione siano
condizione fondamentale per il buon esito della psicoterapia.
Alla luce di
questi assunti, il primo passo che è fondamentale compiere nel processo
terapeutico è la costruzione di una buona Alleanza, ossia di quella sinergia
emotiva e operativa tra terapeuta e cliente che aiuta quest’ ultimo ad
impegnarsi con speranza, fiducia e partecipazione attiva nei compiti richiesti
dalla terapia.
Per facilitarla è essenziale cogliere la
prospettiva dell’altro “guardando il mondo attraverso i suoi occhi” soffermandomi
su ciò che sembra cruciale e toccante; il paziente ha bisogno di essere ascoltato,
di sentirsi accolto e compreso e in questa direzione possono risultare utili
interventi di sostegno empatico, di riformulazione, domande di chiarificazione,
parafrasi e rispecchiamento (Scilligo, 1991, 1992; Ivey & Ivey, 2004).
Dice Berne
che attraverso il terapeuta, il paziente ha la possibilità di sperimentare nel
vivo della seduta nuovi modi di interagire che consentono un nuovo
apprendimento interpersonale e la costruzione di un senso di sicurezza di sé
sufficiente ad eseguire i passi per cambiare (Berne, 1966).
L’Alleanza può anche includere
secondo la Benjamin
(2003) forme di legame che implicano diverse versioni dell’attaccamento.
Lo spazio
della terapia permette che ciò avvenga, poiché il terapeuta offre una base
sicura che consente al paziente di affrontare la paura del cambiamento e
sperimentarsi in nuove possibilità di essere. In tal modo gradualmente la
persona si accorgerà che tali possibilità funzionano anche al di fuori della
terapia e una volta interiorizzate, le nuove modalità, si sostengono da sole
per i benefici che ne conseguono.
La psicoterapia, come nuova esperienza
relazionale, crea così l'opportunità di modificare le relazioni internalizzate
e di configurarsi come processo di guarigione dal copione. Bowlby (1988) definì
l'Alleanza Terapeutica una base sicura e il terapeuta come una nuova figura di
attaccamento.
È inoltre fondamentale discutere e definire con il
paziente le regole del setting; fare attenzione che esse provengano dallo Stato
dell’ Io Adulto ed evitare di esprimersi in modo genitoriale o normativo.
Ritengo che questo tuteli entrambi e comunichi un senso di serietà e coerenza.
È importante chiedere al paziente di esprimere il
proprio parere in merito e restare attenti alla possibilità di reazioni
compiacenti che escludano lo Stato dell’Io Adulto.
Berne (1961)
descrive l’evoluzione della relazione terapeutica in base a fenomeni inconsci,
evidenziando come gli aspetti transferali positivi consentano un’autentica
alleanza terapeutica.
La nevrosi di transfert è definita da
Novellino (1987) come “una situazione
clinica caratterizzata dal fatto che il paziente, tramite un elastico, rivive
nella sua piena intensità emotiva l’impasse originario, vivendo inconsciamente
il terapista come se fosse il polo genitoriale dell’impasse stessa”. Il
paziente quindi tenderà a risperimentare
la relazione arcaica riproponendo i relativi giochi psicologici. Il paziente
proietterà il bisogno insoddisfatto sul terapeuta, poiché egli viene vissuto
dal paziente sia come fonte del possibile soddisfacimento del bisogno (polo
positivo del transfert) sia come fonte di frustrazione.
Il controtransfert
è inteso come reazione del terapeuta ai processi comunicativi inconsapevoli del
paziente.
Secondo Novellino (1987) l’analisi del
controtransfert è uno strumento per avere accesso al mondo interno del
paziente; il terapeuta, quando lavora con un Adulto (A2) decontaminato e con la
sua capacità intuitiva (A1), è libero di leggere i processi comunicativi
inconsapevoli del paziente potendo ipotizzare, a partire dalle proprie reazioni,
l’esistenza di dinamiche interne al paziente delle quali quest’ultimo non è
consapevole.
L’accettazione di una relazione da transfert
permette di costruire attraverso la relazione terapeutica un’esperienza
correttiva e antitetica rispetto a quelle del protocollo copionale (Benjamin,
2003).
Concludo con l’affermazione di Greenberg
(2000) secondo cui la relazione terapeutica è necessaria per fornire le basi
del lavoro terapeutico; generalmente sufficiente perché curativa in sé; non sempre efficiente perché può migliorare
con interventi concentrati sul compito.
domenica 23 marzo 2014
Quaderni tecnici per gli addetti ai lavori: Seconda parte. Importanza e uso del contratto nel processo terapeutico.
La terapia
contrattuale rappresenta uno dei punti cardine dell’approccio dell’Analisi
Transazionale ed ha come prerogativa essenziale l’aggancio alla concezione
filosofica dell’OKness, che si fonda sul concetto di essere umano unitario ed
originariamente completo e quindi responsabile di sé e del proprio
destino/progetto.
Il contratto
è concettualizzabile da due diverse prospettive connesse tra loro: il contenuto,
ovvero esso è un accordo tra terapeuta e cliente circa l’obiettivo di terapia,
le mete da raggiungere, le regole del setting e l’orientamento della terapia;
il processo, ovvero attraverso il contratto si crea una relazione tra due
persone che attivano il proprio Stato dell’Io Adulto nel cooperare per
raggiungere l’obiettivo.
Berne (1966) definì il contratto un “impegno esplicito e bilaterale preso dal
cliente e dal terapeuta, o consulente, per un ben definito corso d’azione”.
Steiner
(1974) evidenzia come per Berne fosse importante che tra cliente e terapeuta si
stabilisse una relazione paritaria, in cui entrambi i partner avessero uguali
responsabilità pur mantenendo compiti diversi, essendo entrambi in grado di
funzionare a livello Adulto. Credo sia importante esplicitare i ruoli
reciproci: il cliente ha il compito di individuare ciò che desidera cambiare di
sé, il suo obiettivo, e partecipa
attivamente fin dall’inizio al processo di cambiamento in quanto principale
conoscitore di se stesso mentre ruolo del terapeuta è di facilitatore in questo processo terapeutico in quanto mettendo a
disposizione le proprie conoscenze non
ha da risolvere i problemi del paziente,
ma ha da aiutarlo a comprendere come
finora si è bloccato dal risolverli da solo (Novellino,1998).
Questo
momento non solo rende esplicite le regole della terapia, ma mira
all’attivazione dell’Adulto del cliente e a responsabilizzarlo, attivando
la propria capacità di pensare, la
facoltà di decidere della propria vita e di modificare le decisioni
precedentemente prese. Rappresentando la relazione con il modello degli Stati
dell’Io, il metodo contrattuale consente di passare da un rapporto G-B, dove il
cliente spera nell’intervento magico del terapeuta vissuto come onnipotente, al
dialogo A-A, dove ciascuno è responsabile del proprio 50% del contributo nella
relazione.
Esso evita in
tal modo lo stabilirsi di una relazione di dipendenza tra cliente e terapeuta
che può invalidare il processo di cambiamento. Il contratto limita l’intensità
dei processi iniziali di transfert e protegge lo stesso terapeuta da un
eventuale controtransfert onnipotente (Holloway, 1973).
Tra i criteri
che vanno tenuti in considerazione per formulare un contratto che permetta al
terapeuta di avere chiara in ogni
momento la direzione verso il cambiamento ci sono quelli individuati da
Haimovitz (1979) e ripresi da Steward e Joines (1987); questi propongono per un
contratto efficace che l’obiettivo sia: a) espresso in termini
positivi, in modo che sia chiaro che cosa il cliente vuole fare di diverso;
b) raggiungibile, date le risorse attuali e la situazione contestuale
del cliente (per esempio non è possibile fare contratti per cambiare altri); c)
specifico ed osservabile, per evitare lavori senza fine e per avere
parametri chiari del suo raggiungimento (traducibili in termini
comportamentali); d) sicuro, che tenga cioè conto del contesto di
riferimento del cliente e che non lo esponga a rischi; e) formulato dall’A con
la cooperazione del B L (cioè comprendente i suoi bisogni autentici) e congruo
col sistema di valori della persona, per avere il sostegno del G; f) espresso
con linguaggio chiaro, e
chiaro relativamente ai costi ed alle perdite che il suo raggiungimento prevede
(in termini economici, di impegno, di tempo, ecc.); g) tramutabile in un
impegno ad un’azione specifica (ovvero che sia esplicitato quali mosse si
dovranno fare per raggiungere l’obiettivo).
Nello
stipulare un contratto vanno tenuti presenti inoltre i tre livelli indicati da
Berne (1966):
il livello amministrativo: definisce gli
aspetti professionali tra terapeuta e cliente e coincide con il setting
(durata, frequenza, onorario, luogo, reperibilità);
il livello professionale: stabilisce
l’obiettivo della terapia. L’accordo viene stabilito nei primi incontri ed è
strettamente collegato al livello psicologico;
Il livello psicologico: si riferisce
alla dimensione ulteriore della relazione terapeutica.
Dal punto di
vista “tecnico” Steiner definisce quattro criteri di validità a cui far riferimento
per formulare il contratto: mutuo
consenso, accordo esplicito e reciproco; remunerazione valida, esplicita e concordata da entrambi le parti; competenza, il terapeuta deve disporre
di competenze adeguate e il paziente deve poter accedere alle competenze Adulte
durante il lavoro fatto insieme; obiettivo
legale, obiettivi e modi della terapia devono essere conformi alle leggi
vigenti e aderenti ai principi deontologici.
Holloway, M. e W. (1973) hanno proposto l’esistenza di due tipi di
contratti, di controllo sociale e di autonomia. I primi si
focalizzano su alcuni aspetti particolari del pensiero, comportamento e
sentimento che si riferiscono ad un elemento della decisione precoce; i secondi
sono quelli che si concludono mettendo fine al copione di vita, per cui la
persona decide di non vivere più
obbedendo all’ingiunzione e rivendica una posizione esistenziale “Io sono Ok-tu
sei Ok”. Oltre ai criteri di validità per formulare un contratto ritengo importante essere attenti a discriminare i contratti inaccettabili, e
per farlo seguo le linee guida esposte dai Goulding (1979) secondo i quali i
contratti inaccettabili sono quelli: a) genitoriali, basati sul dovere; b) quelli in cui si
vuole cambiare un’altra persona;
e c) quelli che sottendono un “gioco psicologico”.
Inoltre oltre
al contratto generale è necessario stipulare, di volta in volta, i contratti di
seduta con il fine di tenere presente l’argomento concordato senza inutili
divagazioni che tolgono tempo alla seduta oltre ad avere il vantaggio di
rendere verificabili i passi compiuti durante la seduta stessa.
Trovo utile e opportuno prevedere una fase
pre-contrattuale per definire chiaramente il problema presentato, specialmente
nei casi in cui il paziente arrivi in terapia portando un malessere che risulta
anche per lui poco chiaro, ed accompagnato da scarsa consapevolezza.
E’ inoltre interessante la suddivisione di Loomis (1982) che descrive
quattro livelli di contratto di cambiamento: contratto di prendersi cura (riguarda il prendersi cura e favorisce
l’alleanza di lavoro; si basa prevalentemente su permesso e protezione); contratto di controllo sociale (si basa
sul problema concreto e richiede un intervento urgente per favorire il problem
solving); contratto di relazione (in
esso viene posto l’accento sulla natura ripetitiva del problema del paziente;
si procede all’analisi del copione, si lavora al livello di A2, collegando gli
eventi); contratto di cambiamento
strutturale (interviene ad un
livello profondo della persona. Si lavora con l’A1 sui vissuti regressivi
significativi). In genere nelle psicoterapie brevi, si può raggiungere il
livello del contratto di relazione.
I contratti nelle psicoterapie di lunga
durata, invece, mirano alla ristrutturazione stessa della persona e quindi al
cambiamento strutturale in termini di uscita dal copione per raggiungere
l’autonomia.
Per
concludere voglio sottolineare come ricercare e trovare un accordo con il
paziente sull’obiettivo da raggiungere insieme consente di comunicare alla
persona che si ha di fronte due messaggi a mio avviso importanti: il primo riguarda
il fatto che il terapeuta non ha soluzioni magiche e che di conseguenza il
rapporto è paritario; il secondo è il
valorizzare che la persona è in grado di stabilire i propri obiettivi e sa cosa
è importante per lei in un determinato momento. In questo modo si comunica
all’altra persona che è ok a livello esistenziale e che è competente rispetto
al suo problema.
sabato 22 marzo 2014
Quaderni tecnici per gli addetti ai lavori: Il Cambiamento in Psicoterapia secondo l’Analisi Transazionale.
Nel lavoro
terapeutico una delle domande principali da cui partire è il domandarsi cosa spinge la persona a sentire la necessità
di cambiamento.
A riguardo Novellino afferma che “Il cambiamento viene considerato in
psicologia generale e clinica come il risultato della spinta alla
trasformazione avvertita dall’organismo” (Novellino M., 1998); questo
implica che la persona, in un dato momento della sua vita, avverta la necessità
di comprendere e trasformare aspetti di sé che non avverte più come funzionali alla realtà che sta vivendo.
Considero quindi il cambiamento come sinonimo di evoluzione.
Questa
evoluzione, che va nella direzione della crescita e del benessere e che viene
intrapresa attivamente dal paziente, è possibile attraverso l’istaurarsi di una
relazione tra paziente e terapeuta nella quale viene stipulato un contratto
chiaro e con lo scopo di raggiungere il cambiamento. In tale relazione il
terapeuta attraverso le proprie competenze facilita il cambiamento, usando le
risorse del paziente e stimolando nuove competenze.
In altre
parole la persona, grazie all’interazione con il terapeuta, scopre di avere
alternative di fronte ai problemi che vive e che prima non sentiva di avere,
diventa consapevole del senso del suo autolimitarsi all’interno della sua
storia e si dà il permesso di modificare la propria immagine di sé e i
significati che attribuisce alle situazioni rendendosi conto che ciò non
costituisce per lei, oggi, una minaccia.
Secondo l’ Analisi Transazionale (AT) cambiare
significa utilizzare l’energia psichica attiva nello Stato dell’Io Adulto,
affinché l’individuo possa agire nella situazione presente in modo appropriato
ed efficace ricorrendo agli insegnamenti introiettati nel Genitore e esprimendo
liberamente i vissuti del Bambino, in piena autonomia.
Seguendo l’
AT quale sistema di riferimento teorico, le basi attorno a cui ruota il
concetto di cambiamento personale sono:
-
il modello
degli Stati dell’Io con l’egogramma,
-
il concetto
di copione
-
la ridecisione.
Il concetto di Stati dell’Io e la loro
rappresentazione attraverso l’egogramma consentono alla persona di costruirsi una
mappa del proprio funzionamento e di visualizzare in modo semplice e chiaro
quali aspetti di sé vuole potenziare e quali contenere.
Autori come
Berne (1979) e Erskine (1993), a cui faccio riferimento, descrivono il
cambiamento in termini di liberazione e guarigione dal copione, in questo modo
il cambiamento viene visto in termini di modello decisionale, dove le prime
decisioni di copione possono essere cambiate per uscire dal copione e
raggiungere l’autonomia.
“Guarire dal
copione” coincide per Berne nel poter divenire liberi di entrare in contatto
con gli altri e trovare soluzioni ai problemi senza idee o piani preconcetti che condizionino la realtà e
limitino le scelte comportamentali, recuperando in questo modo 3 capacità
fondamentali: consapevolezza, spontaneità
e intimità.
Dove la consapevolezza permette di poter stare in contatto con gli stimoli
esterni e le proprie sensazioni nel qui ed ora senza filtrare il presente con
le esperienze passate; la spontaneità permette di poter reagire liberamente da
tutti e tre gli Stati dell’Io senza dover obbedire a vecchi messaggi
genitoriali e l’intimità permette di poter condividere con gli altri emozioni
autentiche e non quelle caratteristiche di giochi o racketeering ( Stewart
& Joines,1987).
Inoltre
quando si parla di cambiamento è bene tenere in considerazione anche il modello della ridecisione dei Goulding.
Ridecidere
significa cambiare una decisione originale di copione che, da un punto di vista
strategico, nella pratica clinica implica aiutare il paziente affinché possa
prendere contatto con l’impasse originario cosicché da una posizione di
accoglienza nei confronti dei bisogni insoddisfatti dello stato dell’Io Bambino
possa darsi il permesso di acquisire una visione nuova e positiva dell’evento
originario di copione. Questo aspetto illustra come la persona ha oggi, come
allora, il potere di revisionare la propria scelta e cambiare il proprio
copione attraverso il lavoro di terapia alla luce di bisogni nuovi e più
autentici.
Per
facilitare il processo di cambiamento ritengo fondamentale creare innanzitutto
una buona Alleanza terapeutica curando nella relazione l’empatia e
l’accettazione dell’altro e facilitando la creazione di un piano di scambi
paritario tra Adulto-Adulto e non giudicante.
Inoltre
ritengo altrettanto importante arrivare alla
formulazione di un contratto che consenta di rendere condiviso, oltre
che esplicito, l’obiettivo che il paziente ha intenzione di raggiungere,
permettendo in questo modo di responsabilizzare l’individuo rispetto al suo
processo di cambiamento senza correre il rischio di passivizzarsi rispetto al
terapeuta. In tale direzione è importante valutare il livello di cambiamento
stesso che il paziente è disposto a fare: se la persona vuole affrontare, per
esempio, il livello sintomatico/situazionale il tipo di intervento sarà
orientato alla formulazione di un contratto di controllo sociale, dove il focus
di intervento è prevalentemente l’elaborazione di dati usando l’A2 con un
lavoro di decontaminazione ed esclusione e l’utilizzo di tecniche di analisi
strutturale.
Lo
spostamento da un livello più basso a uno più alto in termini di contratto
implicherà una rinegoziazione del contratto e un focus orientato ad un lavoro
maggiormente intrapsichico (per esempio un lavoro sulle decisioni di copione,
sugli schemi relazionali etc.).
Le fasi
strategiche che è bene tenere presenti come quadro di riferimento
nell’intervento sono quelle indicate da Novellino (Novellino,1998; Novellino e
Moiso,1990) dell’Alleanza, che ha come fine a livello sociale
quello di stipulare un contratto valido e a livello psicologico quello di
stabile una dimensione transferale adatta al processo terapeutico (in questa
fase si utilizza l’ascolto attivo, l’empatia avanzata e le operazioni berniane
come l’interrogazione e la specificazione).
Della Decontaminazione,
per decontaminare l’A e chiarire
le interazioni patologiche tra G, A, B. A questo punto il paziente diviene in
grado di analizzare transazioni e giochi con una buona consapevolezza e
controllo anche dei propri sintomi.
Della Deconfusione per fare l’analisi dei conflitti presenti nel B,
è in questa fase che ha luogo la risoluzione dell’impasse, l’elaborzione e
l’integrazione del conflitto allo scopo di raggiungere l’autonomia (Goulding
& Goulding, 1979); è possibile ricontattare la vecchia decisione e
sostituirla con una nuova più funzionale (le operazioni berniane più utilizzate
sono l’interpretazione e la cristallizzazione in quanto aiutano il paziente ad
attribuire significato al sintomo, dopo aver utilizzato l’illustrazione e la
conferma per stabilizzare l’A) ; e del Riapprendimento,
dove si stabilizzano e si verificano
i cambiamenti favoriti nelle fasi precedenti.