Vorrei
spendere due parole riguardo una realtà che ormai da qualche anno è entrata a
far parte delle “competenze” di alcuni psicologi, terapeuti e operatori della
salute: quella del lovegiver ovvero dell’assistente
sessuale per persone con disabilità.
Ciò
che mi ha colpito di più non è tanto la portata che il fenomeno ha raggiunto in
vari paesi (tra cui l’Italia), ma è il fatto che venga presentata come naturale e necessaria, da una maggioranza, l’esistenza
di una simile figura senza porsi minimamente delle domande di ordine etico.
Lovegiver, sexability, sexcounselor
sono alcuni dei termini usati nel settore: oggi per diventare lovegiver basta fare un corso teorico/pratico sulla
sessualità e avere le caratteristiche psicofisiche e sessuali sane (?!); scopo
del corso è quello di preparare degli operatori (sexcounselor) che aiutino la
persona a sviluppare sexability ovvero capacità di provare piacere a
prescindere dai limiti dovuti alla disabilità. In buona sostanza si fanno
massaggi, si arriva a contatti di corpi e eventuale masturbazione dell’assistito/a
se da solo/a non riesce.
Un
primo passo importante sarebbe quello di dare il giusto nome alle cose: si fa
un corso per vendere sessualità o in altre parole si fa prostituzione
professionale (dato che devi frequentare un corso per farlo).
Chi
porta avanti questo progetto (perché è come progetto che nasce) parte dal presupposto che “ il sesso è un diritto per tutti” e che
per capire quello che vivono i disabili bisognerebbe “provate
a stare senza fare sesso per un anno!”; facendo passare la sessualità come
un aspetto imprescindibile dal concetto di salute e benessere. Questo però sembra
contravvenire a diversi studi e situazioni in cui invece l’astinenza, per alcuni periodi o anche prolunagata, può
giovare alla persona più di un’attività sessuale fine a se stessa.
È
già perché il concetto di amore non appare, giustamente, in questo tipo di
programma: gli operatori che “sostengono
emotivamente l’assistito” lo fanno, presumo, con il dovuto distacco che è richiesto e
necessario in ogni tipo di intervento di aiuto. Il tutto tralasciando che dall’altra
parte la persona può sviluppare una forma di amore e attaccamento con il
rischio di arrivare a soffrire creandosi addirittura dei veri e propri castelli
di sabbia che una volta caduti potrebbero arrecare più danni dell’astinenza in
sé!
Personalmente
credo che la sessualità abbia un valore simile nel caso di una persona disabile
e di una normodotata, con questo intendo dire che quando questa rientra in un
contesto ottimale, come conseguenza di una relazione affettiva profonda, allora
può ritenersi sana.
Perché
invece di creare esperti di sessualità non creiamo, in quanto professionisti
del settore psicologico, interventi tesi a sostenere le difficoltà con cui
possono confrontarsi alcuni disabili quando si tratta di porsi in relazione
intima con qualcuno? Perché non creare interventi che favoriscano e sviluppino
la capacità di socializzazione e di scambio comunicativo e che favoriscano la
creazione di relazioni?
Mi
sembra che sia un po’ come il discorso dello scegliere tra l’insegnare a
coltivare la terra, a chi ha bisogno di mangiare; o l’offrire, al suo posto ogni tanto, qualcosa da mangiare.