domenica 13 aprile 2014

Ri-Conoscersi come genitori: “Scenari Inconsci nella relazione genitore-bambino”

Buona parte dei genitori sa che il modo in cui comunica con i propri figli e la capacità che ha di prestare attenzione alle loro esigenze ha un profondo impatto sul loro sviluppo e sul senso di sicurezza indispensabile per affrontare successivamente il mondo.
Non tutti i genitori però sanno che il significato che danno alle proprie esperienze infantili ha un profondo impatto sul loro modo di essere genitori. Nelle relazioni con i figli si tende infatti a mettere  in riedizione quei conflitti che hanno caratterizzato in età infantile il rapporto con i propri genitori.

Questi conflitti, definiti di genitorialità, sono  meccanismi fisiologici funzionali al divenire genitori e danno luogo a due meccanismi: attribuzione di ruolo (role giving) e identificazione complementare (role taking). Attraverso questi meccanismi, infatti, il  genitore cerca di allontanare da sé, mentre è con il proprio figlio, quei  conflitti affettivi irrisolti, ovvero, cerca di allontanare la parte inconscia e non rielaborata della sua infanzia (Berne,1971; Nastasi,1996).  Non sono da considerarsi conflitti patologici ma vanno considerati come fattori strutturanti che caratterizzano l’interazione genitore-figlio e vengono visti come aventi il ruolo di azione propulsiva per lo sviluppo del bambino (Muratori et al., 2008).

Nel meccanismo del role giving ciascun genitore proietta sul proprio figlio immagini significative del passato riferite o ad aspetti di sé in quanto bambino, o ad aspetti dei propri genitori. Un esempio, che fa intendere la presenza di questo meccanismo, è contenuto nella frase: “Assomiglia tutto a me, quando  anch'io facevo come lui” o “è simpatico come mio papà”. Nel role taking, invece si assumono, più o meno consapevolmente, attitudini comportamentali e di ruolo sperimentate, o solo fantasticate, nella relazione infantile con i propri genitori. Ne è un esempio il genitore che dice “Mi viene voglia di picchiarlo” (genitore che è stato picchiato). Questi fenomeni inconsci si verificano all'interno di una dinamica relazionale agita, ovvero secondo una modalità interattiva peculiare di  quella famiglia e tali conflitti di genitorialità cambiano nel corso della crescita del figlio in funzione dell’età e delle specifiche dinamiche che hanno legato il genitore, quando aveva l’età del bambino, ai propri genitori.
I due meccanismi su menzionati possono essere collocati nell’ambito di scenari inconsci nei quali i genitori si possono venire a trovare con il loro figlio. Quando si parla di scenario ci si riferisce al concetto di amore di sé o meglio ancora ideale di sé (ideale dell’Io) secondo cui ognuno vorrebbe sentirsi degno di amore e fiero delle proprie azioni. Tale ideale però nella storia evolutiva dell’individuo può subire dei danneggiamenti delle carenze ecc.
Nel momento in cui si diventa genitori si riapre il file legato a questo ideale e succede che il genitore colloca inconsciamente sul bambino il proprio ideale dell’Io attribuendogli perfezioni, rivendicando privilegi ecc. Può così succedere che il genitore si impegni inconsciamente con il proprio figlio a mantenere gli schemi interattivi,  le immagini e le fantasie che sono state approvate nell’infanzia o desiderate dal genitore quando era bambino. Oppure il figlio diventa lo strumento per cercare di aggiustare, cambiare situazioni di dolore, carenza vissute dal genitore da piccolo.

In ogni scenario il genitore realizza delle proiezioni sul bambino che prendono il nome di role giving e che sono delle attribuzioni di ruolo che vengono fatte sul bambino. Sono stati individuati quattro possibili role giving i quali non vanno però associati a categorie diagnostiche:
1.      Role giving empatico:  si ha quando i genitore proiettano sul figlio  immagini relative ai propri genitori  o ad aspetti di se stessi bambini che sono carichi di affetto positivi.
Sono genitori che godono della presenza del figlio e ne amano le caratteristiche. In questo caso le proiezioni servono a ristabilire i legami con persone significative del proprio passato o a rielaborare lutti sospesi. In questo role giving il bambino può identificarsi con tratti amorevoli e sarà presente uno stile di Attaccamento Sicuro.
2.      Role giving Empatico-Costrittivo: questo scenario si può realizzare quando le proiezioni che i genitori fanno sul bambino riguardano le immagini dei genitori che si avrebbe voluto avere vicino nella propria infanzia, o le immagini di sé come di un bambino amato, che non corrispondono però a quanto è stato sperimentato.
Il genitore, che lotta in questo caso con gli affetti negativi connessi ad esperienze infantili vissute come carenti di qualcosa rispetto ai bisogni fondamentali di sé come bambino, nella relazione attuale ha spesso sensi di colpa rispetto al non fare abbastanza, pretende da se stesso in modo esagerato nascondendo sentimenti depressivi latenti. Il tentativo di incarnare il genitore ideale che si avrebbe voluto avere nella propria infanzia rende questi genitori esausti e con tratti ossessivi. Altra caratteristica di questi genitori è quella di dimenticarsi, ad esempio, di essere anche coniugi.
Il bambino in questo scenario sarà bloccato nella propria autonomia, avrà un eccesso di dipendenza e svilupperà sintomi fobici e somatici che “permetteranno” al genitore di sentirsi il figlio vicino e quindi di rassicurarsi. Sarà presente uno stile di Attaccamento Ansioso-Ambivalente.

3.      Role giving Costrittivo-Deformante (1)
Role giving Costrittivo-Deformante(2): questo scenario riguarda i genitori che, per ragioni diverse, nella propria infanzia sono stati visti e trattati come bambini difficili, cattivi, come pesi per i propri genitori (Tipo 2); o riguarda genitori che si sono percepiti come bambini difficili, e che si sono sentiti in colpa per un’aggressività normale provata nei confronti dei propri genitori (Tipo1). Spesso in queste infanzie sono presenti lutti precoci, malattie gravi o depressioni dove, non essendo presente un’ adeguata rielaborazione hanno portato il bambino a sentirsi responsabile e colpevole.
A causa della colpa che si portano dentro questi genitori  possono assumere un atteggiamento espiatorio di vittimismo e rassegnazione a ricevere maltrattamenti; fanno fatica ad essere autorevoli ma dicono le cose in modo arrabbiato o non fermo alternativamente. Lo “scopo”  di questo role giving da una parte è quella di farsi trattare male dal proprio figlio per espiare una colpa antica, dall’altra è farsi trattare dal bambino nel modo in cui si avrebbe desiderato trattare i propri genitori.
Il bambino se accetta la proiezione può sviluppare sintomi oppositivi provocatori con tratti difficili e aggressivi, non ascolta le regole e non è rispettoso dell’adulto.
Sarà presente uno stile di Attaccamento Ansioso-Ambivalente ed Evitante.
4.      Role giving Deformante-Evacuante: in questo scenario il genitore più che proiettare è come se collocasse sul bambino un’immagine che lo deforma. I genitori “evacuano” sul bambino immagini del passato dei genitori molto cariche di aggressività e odio.
Questi genitori hanno fatto esperienza nella propria infanzia di sentirsi umiliati, sbagliati, perseguitati. Tale esperienza viene rivolta al figlio con un atteggiamento di rifiuto;  è presente inoltre un’idealizzazione della propria infanzia per evitare il dolore e l’angoscia associati e l’identificazione con un’immagine di genitore freddo e distaccato.
Il bambino in questo tipo di scenario si ritrova bloccato nello sviluppo dell’autonomia perché su di lui sono presenti immagini cariche di aggressività e tutti i comportamenti che non sono in linea con l’immagine “evacuata” non vengono considerati dai genitori e perciò il bambino si ritrova ad essere “obbligato” a svolgere un ruolo che gli è stato attribuito.
Sarà presente uno stile di Attaccamento Confuso o Disorganizzato.
Da qui si deduce come sia importante in qualità di genitori realizzare un lutto evolutivo per essere emotivamente sensibili e “realmente” presenti nell’interazione con i propri figli e per permettere loro di crescere in maniera più integrata possibile.


Bibliografia
Guarise Monica (2012) “Come si girano i girasoli”. Come aiutare un genitore a vedere il proprio figlio in consultazione psicoterapica. Psicologia Psicoterapia e Salute, 2012, Vol.18 233-290.





venerdì 4 aprile 2014

Ansia: perchè curarla con lo Yoga e le terapie naturali


 “il dottore del futuro non darà più medicine
ma interesserà il paziente alla cura della struttura umana,
alla dieta e alla prevenzione della malattia”
Thomas Edison

L’idea di trattare l’argomento dell’alternativa all’uso dei farmaci nei vari disturbi psichici nasce dall’osservazione nell’ambito dei corsi di yoga dove insegno, in particolar modo in quelli che realizzo con i ragazzi universitari, di una situazione a mio avviso preoccupante: e cioè del fatto che in molti, soprattutto tra i giovani siano indirizzati tranquillamente a far uso di psicofarmaci per trattare ansie, angosce e banali mal di testa.
Il tutto senza avere una reale presa di coscienza sui rischi in cui si può incorrere nell’assunzione prolungata di tali farmaci; primo tra tutti quello della dipendenza.
Questa situazione, credo, sia il risultato dell’effettiva mancanza di conoscenza di quelli che possono essere le controindicazioni nell’uso dei vari psicofarmaci ma anche del fatto che non vengono spesso proposte all’individuo che si rivolge agli specialisti del settore strumenti alternativi con cui affrontare e risolvere le varie problematiche.
I disturbi su cui mi vorrei soffermare sono quelli dove la richiesta di aiuto è maggiore e che interessano buona parte della popolazione e rientrano nella categoria dei disturbi di ansia (che comprende i disturbi di ansia generalizzata, gli attacchi di panico, le varie fobie-sociale, specifica , i disturbi ossessivo-compulsivo, distrubo acuto da stress).
I distrubi d’ansia spingono ben sette milioni e mezzo di italiani a essere consumatori abituali di “ansiolitici”; oltre a questi sembra che altri cinque milioni di persone soffrano di ansia, o semplicemente credano di soffrirne.
Secondo la psicologia tali disturbi sono considerati come la degenerazione di una reazione emotiva facente parte del nostro bagaglio genetico emotivo.
Esiste infatti un’ansia di tipo “fisiologico” che rappresenterebbe uno stato psicologico e corporeo dell’essere umano nei confronti delle vicissitudini della vita; stato che si differenzia come manifestazione dai disturbi d’ansia veri e propri.
Ad esempio quando una persona deve affrontare una prova entra in genere in lieve stato ansioso. Il suo corpo e la sua psiche si “orientano” verso l’imminente evento quasi per prepararsi a risolverlo nel miglior modo possibile. In questo caso l’ansia “moderata” e di breve durata sembra essere un segno di adattamento dell’individuo a una situazione ambientale che gli richiede risposte soddisfacenti. L’aumento dell’attenzione, della concentrazione, della memoria, della tensione muscolare e di altre funzioni psicofisiche (come per esempio l’innalzamento della pressione del sangue, del battito cardiaco) è considerato come una sorta di “carica energetica” finalizzata al superamento della prova. Tuttavia quando in altre situazioni questo stato è continuo oppure diviene troppo intenso provoca al contrario, la “caduta” delle funzioni sopra descritte. In altre parole la persona può perdere memoria, concentrazione, essere disattenta, sentirsi troppo stanca e improvvisamente “vuota” dal punto di vista mentale tanto da essere incapace di adeguarsi normalmente alla vita di tutti i giorni. Questo caso rientra nel campo dei lievi disturbi ansiosi.
L’attacco di panico è caratterizzato da un’improvvisa e inaspettata sensazione di terrore e angoscia durante la quale nel giro di pochi minuti possono apparire diversi sintomi come palpitazioni, sudorazione, tremori, sensazione di soffocamento dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali sensazioni di sbandamento, o di svenimento; derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da sé stessi); paura di perdere il controllo o di impazzire; di morire; brividi o vampate di calore.
Una delle possibili complicazioni degli attacchi di panico, soprattutto quando sono ripetuti, è che la maggior parte delle persone via via sviluppa un’ansia “anticipatoria” (cioè la paura di nuovi episodi di panico) e conseguentemente cerca di evitare le situazioni che sono state associate agli attacchi; ne consegue un certo isolamento.
 I trattamenti abitualmente adottati prevedono:
La terapia farmacologica: largamente usata, si prescrive solitamente per brevi periodi dato che generalmente si sviluppano fenomeni di assuefazione e dipendenza che spingono l’individuo ad assumere quantità sempre maggiori di farmaci. Tra gli effetti collaterali di questi farmaci troviamo la sonnolenza, l’aumento del peso, i disturbi cutanei, mal di testa, impotenza, vertigini, irregolarità mestruali. Inoltre, in alcuni casi, l’interruzione dell’uso di questi farmaci può a breve o a lungo termine far riapparire, anche in maniera amplificata, i sintomi iniziali associati ad altri nuovi.
Solitamente la terapia farmacologica è affiancata dalla psicoterapia di tipo congitivo-comportamentale che è orientata a correggere attraverso tecniche pratiche (incluse tecniche di rilassamento) i comportamenti disfunzionali e a trasformare certi schemi fissi di ragionamento considerati la causa dei sintomi.
Il distrubo d’Ansia Generalizzato è invece caratterizzato, da almeno sei mesi di ansia e preoccupazioni incontrollate presenti per la maggior parte della giornata; che compromettono negativamente il sonno, l’umore e la concentrazione, creano tensioni muscolari e affaticabilità; tachicardia, vertigini, bocca secca, sudorazione aumentata, formicolii. Il trattamento è sempre farmacologico con ansiolitici associati alla terapia di tipo cognitvo-comportamentale o psicodinamica.



Secondo l’insegnamento Yoga, le varie disfunsioni di ordine fisico, psichico e mentale con cui l’essere umano si confronta, riflettono l’incapacità di distribuire in modo adeguato l’ energia nei vari centri nervosi che sono presenti in ogni individuo.
L’assunto di base da cui si parte è quello secondo il quale questi centri nervosi chiamati Chakra rappresentano dei punti-focolai di emissione e ricezione dell’energia dell’essere; in questi punti a livello bioenergetico l’energia ha una maggiore concentrazione e dal punto di vista anatomico i nervi si uniscono per formare i più importanti plessi ( come il cardiaco, solare ecc.).
Questi centri presentano delle caratteristiche specifiche che l’individuo manifesta nel momento in cui ha una predominanza energetica in uno o più di essi; inoltre regolano l’attività delle ghiandole e degli organi che gli corrispondono dal punto vista anatomico (ad es. Anahata Chakra-centro plessocardiaco-controlla l’attività del cuore, polmoni ecc.- caratteristiche affettività elevata, amore puro, l’altruismo ecc.)
Secondo questa visione i disturbi di ansia sono l’espressione di uno squilibrio energetico a livello di tre Chakra: Muladhara, Manipura e Anahata,

Il primo di questi Chakra, Muladhara (alla base della colonna vertebrale) è legato principalmente all’istinto di conservazione, alla preoccupazione per la sopravvivenza fisica e corporea, all’aspetto più materiale dell’essere; una sua attivazione disarmoniosa si esprime con paura eccessiva di essere attaccati, annientati, di perdere il controllo.
Facendo un parallelismo con la classificazione dei disturbi di ansia possiamo osservare una similitudine tra le caratteristiche precedentemente enunciate e alcuni dei sintomi come la paura di impazzire o perdere il controllo; la sensazione di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento; la paura di morire.
Possiamo osservare inoltre come nell’ansia da prestazione professionale o nelle fobie sociali è sempre il piano materiale ad essere implicato come manifestazione della disarmonia in Muladhara Chakra.
Lo squilibrio energetico riguarda abbiamo detto anche il terzo Chakra Manipura ( due cm sotto l’ombelico) centro che controlla l’attività del plesso solare e che troviamo legato principalmente al dinamismo dell’essere, alla passionalità, al controllo; la sua attivazione disarmoniosa si esprime in un comportamento caratterizzato dalle dinamiche dominio/sottomissione.
In alcune manifestazioni d’ansia, come l’agorafobia, le dinamiche psicologiche sottostanti il disturbo riguardano appunto il conflitto tra dipendenza e indipendenza presente nell’individuo; in sintesi, il disturbo spesso è una modalità attuata per avere il controllo di sé e dell’altro.
La correlazione può continuare tra la paura di perdere il controllo, propria dei disturbi di ansia, e l’impulsività e l’irrascibilità proprie di un’energia eccessiva e non controllata in Manipura Chakra. Come sintomi fisici dell’ansia espressione dello squilibrio energetico in Manipura abbiamo la nausea, i disturbi addominali, vampate di calore ecc.
Anahata Chakra (situato al centro del petto) controlla il plesso cardiaco ed è legato alle emozioni, all’affettività e all’empatia dell’individuo. Possiamo osservare come gli attacchi di panico, si presentano spesso in situazioni di separazione e di abbandono (per questo vengono solitamente esplorate le tematiche riguardanti la dipendenza del soggetto); inoltre una manifestazione tipica della disarmonia di Anahata è l’agitazione mentale e fisica che ritroviamo nei disturbi d’ansia come palpitazioni, sensazione di soffocamento, dolore o fastidio al petto
La modalità elettiva per ricreare l’equilibrio e per armonizzare le energie nei Chakra è rappresentata dall’Hatha Yoga: gli asana infatti permettono lo scorrimento delle energie nell’essere e la loro distribuzione armoniosa; nel caso dei disturbi d’ansia è necessario quindi impostare una pratica quotidiana e costante che prediliga le posture che attivano i tre chakra su menzionati. Attraverso la pratica yoga oltre ad agire su quelli che sono i sintomi fisici , quindi sul corpo, si lavora anche sul piano mentale e psichico; in tal modo è possibile arrivare ad avere una maggiore autostima, si accresce la fiducia in se stessi, e la forza interiore.

La realizzazione di tecniche di rilassamento (presenti anche nella terapia di tipo comportamentale) e di tecniche di training autogeno permettono un rilassamento dei vasi sanguigni, una riduzione della tensione muscolare, un maggiore afflusso di sangue in quasi tutti gli organi e una migliore funzione respiratoria.
Nello specifico è raccomandata la realizzazione di Yoga Nidra (= sonno yoga), un metodo yogico che permette di entrare in uno speciale sonno yogico senza sogni in cui la coscienza resta sospesa ma iper vigile e appare un rilassamento profondo a livello muscolare, nervoso e psichico.
Durante la realizzazione di questa tecnica la coscienza entra in contatto con le energie benefiche del macrocosmo raffinando il suo livello, e l’essere sperimenta uno stato di straordinaria pienezza.
Eseguire una respirazione consapevole permette, se praticata sistematicamente di mantenere uno stato di distensione mentale e di calma; nello specifico è indicato realizzare nei momenti di crisi (quando il respiro diventa affannoso o si ha la sensazione di “mancanza d’aria”) delle respirazioni profonde e addominali
La pratica della meditazione sia specifica sull’attivazione dei Chakra che realizzata con i mantra, da parte di colui che ha ricevuto l’iniziazione da un Maestro, permette di sperimentare e acquistare sia uno stato di distacco che di sviluppare una prospettiva di analisi dei problemi e delle situazioni più ampia, con una conseguente stabilità emozionale.
E’ possibile inoltre abbinare una terapia a base di piante officinali come valeriana, menta, basilico, ashwaganda e iperico o utilizzare i fiori di Bach, o l’omeopatia; tali trattamenti non hanno controindicazioni, né effetti collaterali e non creano assuefazione.
L’oligoterapia (cura con i minerali) consiglia per lo stato ansioso di assumere manganese – cobalto.
È possibile aiutarsi con la cromoterapia utilizzando il blu e il giallo sia nell’abbigliamento che come forma di trattamento; indicati sono la pranoterapia e la musicoterapia.
E’ bene inoltre utilizzare delle idee forza del tipo “sono sereno, tranquillo e in pace con me stesso e con tutto quello che mi circonda” che permettono di dinamizzare il subconscio in maniera positiva. L’idea sarà ripetuta appena svegli e prima di addormentarsi per 21 volte; durante la giornata è bene utilizzarla per controllare le fluttuazioni mentali; la dinamizzazione del subconscio si ottiene inoltre scrivendo e e tenendo la rispettiva frase in posti accessibili al nostro sguardo.
Trascorrere del tempo in mezzo alla natura è un’ottima modalità per ricreare un contatto con se stessi e per ristabilire uno stato interiore di tranquillità.
Anche l’alimentazione va curata, evitando sostanze eccitanti come caffè, tè, cioccolata, cacao, coca-cola e droghe eccitanti come zafferano, pepe, curry. Sembra che esista per curare l’ansia un esame “bioelettronico”, non invasivo e chiamato Vega test, attraverso il quale si possono individuare classi di alimenti (lieviti, latte e derivati, cereali) che spesso favoriscono le reattività ansiose e che perciò vengono eliminati dalla dieta.
Per ultimo ma non per questo meno importante sarebbe bene imparare a volersi realmente bene ad avere più fiducia in se stessi e avere una visione più positiva della realtà che ci circonda; imparare a lasciare che le cose scorrano senza vivere nell’affanno, a rapportarsi a qualcosa di Superiore che ci permetta di sperimentare uno stato di abbandono attivo e consapevole a ciò che la vita ci riserva.



sabato 29 marzo 2014

Stress lavorativo e Yoga: una modalità pratica per migliorare la propria efficienza


  • I risultati di alcune ricerche hanno dimostrato l’incidenza dei disturbi psicologici (ansia,  depressione, ecc.) sul rendimento lavorativo del singolo e di conseguenza sul bilancio aziendale; ad esempio uno studio realizzato dal National Institutes  of Mental Health (Istituto Nazionale delle Malattie Mentali) ha evidenziato come ogni lavoratore americano afflitto da disturbi bipolari in media perda 65 giorni di lavoro l’anno, rispetto ai 27 persi da chi soffre di depressione maggiore.
    A tali disturbi vanno affiancati quelli che hanno assunto il ruolo di “malattie dell’ambito lavorativo” come la sindrome da stress  lavorativo, la sindrome del burnout, il mobbing, la dipendenza lavorativa.
    Il lavoro, oggi, non è considerato solamente come un’attività necessaria al sostentamento, ma è diventato anche un mezzo per affermarsi socialmente: bisogna essere veloci, efficienti, disponibili, sempre più bravi e preparati; quello che conta è il risultato, la produttività.
     Tutto ciò ha portato ad un accrescimento dell’identità lavorativa rispetto a quella personale.

    Lo stress da lavoro
    Lo stress o Sindrome Generale di Adattamento (SGA) viene definito come “una risposta generale aspecifica a qualsiasi richiesta (demand) proveniente dall’ ambiente” (Seyle, 1975); esso rappresenterebbe quindi la normale reazione dell’individuo alle pressioni esercitate dall’ambiente (esterno o interno, fisico o psichico) e non necessariamente ha valore negativo.  In alcuni casi, infatti, può contribuire a stimolare l’adattabilità di un individuo all’ambiente (eustress). Al contrario, se protratto nel tempo, genera scarso rendimento, disinteresse per il proprio lavoro, fuga dalle responsabilità ecc. (distress).
    Per quel che riguarda l’ambito lavorativo vediamo che lo stress è il risultato di un’interazione tra fattori organizzativi e fattori personali.
    Secondo il modello dell’Aggravio di lavoro – Job strain model (1) – lo stress lavorativo sarebbe causato soprattutto dalla combinazione di un eccessivo carico di lavoro e una scarsa possibilità di controllo sui compiti da svolgere. Quindi seppure in presenza di un carico di lavoro pesante, un lavoratore potrebbe non sentirsi stressato se percepisse di poter gestire nella maniera più opportuna tale carico.
    Il modello dello Squilibrio tra sforzo e ricompensa – Effort-rewards imbalance model (2) – ipotizza che lo stress lavorativo si riscontri in presenza di un elevato impegno da parte del lavoratore associato ad una scarsa ricompensa; che può essere intesa sia come guadagno economico, che come approvazione sociale, stabilità lavorativa o opportunità di carriera.
    Secondo la Commissione Europea, Direzione generale occupazione e affari sociali (3) i fattori più comuni che possono determinare stress legato all’attività lavorativa sono:
    • Quantità di lavoro da eseguire eccessiva oppure insufficiente.
    • Tempo insufficiente per portare a termine il lavoro in maniera soddisfacente sia per gli altri che per se stessi.
    • Mancanza di una chiara descrizione del lavoro da svolgere o di una linea gerarchica.
    • Ricompensa insufficiente, non proporzionale alla prestazione.
    • Impossibilità di esprimere lamentele.
    • Responsabilità gravose non accompagnate da autorità o potere decisionale adeguati.
    • Mancanza di collaborazione e sostegno da parte di superiori, colleghi o subordinati.
    • Impossibilità di esprimere effettivamente talenti o capacità personali
    • Precarietà del posto di lavoro, incertezza della posizione occupata.
    • Condizioni di lavoro spiacevoli o lavoro pericoloso.
    • Possibilità che un piccolo errore o disattenzione possano avere conseguenze gravi.

    Nell’organismo di una persona sottoposta a stress si osservano modificazioni nell’equilibrio del sistema endocrino e di quello nervoso che coinvolgono una serie di ormoni come ad es. il cortisolo, l’adrenalina e la noradrenalina: queste modificazioni hanno una forte incidenza su tutto il sistema cardiovascolare. Lo stress abbassa inoltre l’efficienza del sistema immunitario ed aumenta la probabilità di disturbi gastrointestinali, malattie della tiroide, diabete e incrementa il rischio di insorgenza di tumori.
    Una manifestazione del disagio professionale che ha conseguenze sull’efficienza lavorativa è rappresentata dalla sindrome del “Burnout, o “Sindrome dell’esaurimento emotivo“; che rappresenta una reazione patologizzata allo stress lavorativo e indica uno stato di insoddisfazione lavorativa, in termini fisici e psicologici, dovuta al mancato raggiungimento di un obiettivo prefissato. Si manifesta con apatia, frustrazione, mancanza di obiettivi e scarsa autostima, cui segue un forte senso di colpa dovuto all’incapacità di portare a termine i propri incarichi.
    Il burnout si manifesta con frequenti e persistenti emicranie, disturbi gastrointestinali, insonnia, eccessiva stanchezza; e con una serie di sintomi, che vanno dalle frequenti influenze ai dolori lombari,  alla tachicardia e nausea.
    Dal punto di vista psicologico si manifestano atteggiamenti quali volubilità, inclinazione all’isolamento, bassa stima di sé, sensi di colpa, rabbia e risentimento, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, fino ad arrivare a paranoia, esaurimento, depressione e una propensione all’uso di sostanze stupefacenti, farmaci o alcool. Nei casi più gravi, stati depressivi possono condurre alla malattia mentale e a pensieri suicidi. Chi ne è colpito è oltretutto incapace di chiedere aiuto, e ciò evidenzia la mancanza di un riscontro sul piano sociale.

    Tra i più comuni fattori di stress sul lavoro figura il mobbing, una violenza psicologica sul lavoro (non necessariamente a sfondo sessuale) provocata dal deteriorarsi delle relazioni interpersonali e da anomalie organizzative; una sorta di comunicazione conflittuale sul posto di lavoro, che avviene tra colleghi o tra superiori e dipendenti, nella quale la persona attaccata viene posta in una condizione di debolezza ed aggredita ripetutamente in maniera esplicita o implicita per un prolungato periodo di tempo con lo scopo preciso di mandarla via dal posto di lavoro. Gli attacchi mirano a colpire la capacità di autonomia e d’iniziativa delle vittime e a renderle insicure di sé e della propria professione: in poco tempo l’autostima vacilla e nasce il dubbio per la validità del proprio operato. Oltre a ledere il rendimento lavorativo le conseguenze del mobbing portano addirittura al suicidio, all’incirca nel 20% dei casi.
    Un’ ulteriore causa di stress lavorativo è la dipendenza lavorativa che tutt’oggi è ancora un fenomeno sottovalutato e poco riconosciuto nell’ambito del disagio psicologico con la conseguenza di una diagnosi in fase avanzata solitamente in seguito ad infarti o ad altre gravi malattie.
    Ne è maggiormente colpito il lavoratore competitivo, che ha una attitudine spiccata alla supremazia e all’autoaffermazione; il lavoratore ambizioso e orientato al successo, instancabile, indirizzato verso modelli di perfezione e grandi responsabilità.
    Chi è predisposto a questa dipendenza solitamente considera il lavoro come l’unica opportunità per vivere le interazioni sociali divenute precarie per via degli impegni quotidiani: le ore dedicate agli straordinari possono rappresentare un modo per evitare la solitudine o l’assenza di un nucleo familiare. C’è chi si dedica anima e corpo al lavoro per sottrarsi ad un disagio sentimentale o familiare o chi nutre la propria autostima solo attraverso conferme e riconoscimenti sociali o ancora chi si lascia sovraccaricare di lavoro per un bisogno di auto-punizione. Chi soffre di questa dipendenza, si porta il lavoro in vacanza o nei fine settimana, non si assenta mai né per necessità né per malattia, può avere crisi di astinenza, provare sensazioni di vuoto angoscia e nervosismo quando è lontano dal lavoro, può avere paura di perdere il lavoro, incubi relativi a errori o insuccessi e spesso è incapace di ritagliarsi del tempo per svaghi e divertimenti; automaticamente, nonostante il lavoro occupi l’intera vita di questi individui il rendimento è piuttosto scarso.

    Andiamo ad analizzare quali sono le modalità per controllare e risolvere lo stress lavorativo e di conseguenza aumentare la propria efficienza lavorativa.
    • Acquistare consapevolezza dei fattori che creano stress, valutando le fonti e dove è possibile intervenire urgentemente.
    • Valutare il proprio grado di coinvolgimento nel lavoro, consapevoli che il posto di lavoro non deve sostituire il nucleo familiare e che investire troppo dal punto di vista affettivo è pericoloso.
    • Modificare la valutazione cognitiva dell’ambiente, riconoscere la differenza tra le cose che si possono controllare e quelle che non si possono controllare. È necessario chiedersi a riguardo come stiamo vivendo la situazione fonte di stress e se esistono modalità alternative di affrontarla (in questa situazione è possibile appoggiarsi ad un amico, ad uno psicologo, al partner).
    • Rivedere la scala di valori, dando il giusto peso a ciò che esiste al di fuori del lavoro come la famiglia, gli amici e gli altri interessi. Ambiti in cui le soddisfazioni possono compensare lo stress da lavoro.
    • Pianificare le attività, imparare a delegare tutto ciò che è delegabile e a distinguere tra cose importanti e cose meno urgenti.
    • Realizzare Tecniche di Hatha Yoga, tecniche di rilassamento e di concentrazione e meditazione: l’applicazione di tale disciplina, infatti, agisce in maniera sinergica sui vari aspetti che risultano “colpiti” dallo stress portando alla riduzione e all’eliminazione dell’uso di farmaci.
    Le posture permettono di ristabilire l’equilibrio fisico eliminando i vari disturbi somati come emicranie, disturbi gastrointestinali, dolori lombari, e ristabiliscono inoltre l’equilibrio ormonale.
    Le tecniche di rilassamento permettono un recupero rapido delle energie e l’acquisizione di uno stato di distensione totale sia fisica che psichica.
    Le tecniche di concentrazione e meditazione permettono di amplificare la capacità di focalizzazione mentale, la concentrazione, l’attenzione e la memoria; oltre a favorire l’eliminazione degli stati di irascibilità, risentimento e sensi di colpa.
    A tale proposito ho potuto notare che realizzare delle sedute di yoga nell’ambito lavorativo (ad es. durante la pausa pranzo o al termine del turno lavorativo) oltre a favorire un processo individuale di recupero e armonizzazione delle energie, permette di creare tra i partecipanti (colleghi) nuove modalità di interazione e di condivisione che possono portare al superamento di alcune dinamiche lavorative spiacevoli.
    • Fare delle pause nel corso della giornata, per cercare di riprendere il contatto con se stessi: realizzare una passeggiata in natura, può essere molto rigenerante e permette di tornare al lavoro con rinnovata energia e lucidità, inoltre l’esercizio fisico costante libera endorfine endogene, una sorta di “droga naturale” che aiuta a sentirci meglio, e ci aiuta a prevenire sia i danni cardiovascolari che quelli muscolo-scheletrici dovuti allo stress lavorativo
    • Prendersi cura di sé stessi e del proprio corpo: curare l’ alimentazione e prevedere degli adeguati periodi di riposi.
    • Orientare la propria attenzione anche ad altre attività (gruppi di volontariato, associazioni culturali…) che permettono di ottenere nuove gratificazioni e soddisfazioni.
    • Pensare positivo : prendere nota dei successi lavorativi e imparare a ricompensarsi. È importante imparare a porsi degli obiettivi a breve termine e a sentirsi soddisfatti quando vengono raggiunti. Cercare di non considerare le critiche come un attacco personale bensì come un’opportunità di crescita.
    • Coltivare l’humor, sia riguardo sé stessi che riguardo le situazioni da affrontare.
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mercoledì 26 marzo 2014

La Relazione Terapeutica.Quaderni tecnici per gli addetti ai lavori: Terza parte

Guidano & Liotti affermavano che  “La relazione terapeutica è un rapporto reale nella vita del paziente e può essere l'elemento che più di ogni altro influisce sull'efficacia e l'incisività dell'intervento” (Guidano & Liotti, 1979).
Rogers parlava di relazione terapeutica come “elemento curativo di base” (Rogers, 1951); e sosteneva che il terapeuta, al fine di facilitare il cambiamento, deve porsi con un atteggiamento empatico, astenersi dai giudizi ed essere genuino (Rogers 1957).
Questo modo di intendere la relazione terapeutica è molto vicino ai concetti dell'Analisi Transazionale, ovvero che “ognuno è Ok”, ognuno ha la capacità di pensare, ognuno decide del proprio destino e queste decisioni possono essere cambiate (Steward & Joines, 1990). Partendo da questi presupposti il lavoro terapeutico, visto come una relazione collaborativa in cui entrambi mettono in campo le rispettive risorse e competenze, deve essere teso a far sì che il cliente recuperi la propria consapevolezza, spontaneità, intimità e quindi la propria autonomia (Berne, 1964).
Ritengo che tali affermazioni evidenziano il valore della relazione in sé nel lavoro terapeutico e nel processo di cambiamento; e come l’istaurarsi di un rapporto paritario basato sul rispetto reciproco, sulla fiducia e cooperazione siano condizione fondamentale per il buon esito della psicoterapia.
Alla luce di questi assunti, il primo passo che è fondamentale compiere nel processo terapeutico è la costruzione di una buona Alleanza, ossia di quella sinergia emotiva e operativa tra terapeuta e cliente che aiuta quest’ ultimo ad impegnarsi con speranza, fiducia e partecipazione attiva nei compiti richiesti dalla terapia.
 Per facilitarla è essenziale cogliere la prospettiva dell’altro “guardando il mondo attraverso i suoi occhi” soffermandomi su ciò che sembra cruciale e toccante; il paziente ha bisogno di essere ascoltato, di sentirsi accolto e compreso e in questa direzione possono risultare utili interventi di sostegno empatico, di riformulazione, domande di chiarificazione, parafrasi e rispecchiamento (Scilligo, 1991, 1992; Ivey & Ivey, 2004).
Dice Berne che attraverso il terapeuta, il paziente ha la possibilità di sperimentare nel vivo della seduta nuovi modi di interagire che consentono un nuovo apprendimento interpersonale e la costruzione di un senso di sicurezza di sé sufficiente ad eseguire i passi per cambiare (Berne, 1966).
 L’Alleanza può anche includere secondo la Benjamin (2003) forme di legame che implicano diverse versioni dell’attaccamento.
Lo spazio della terapia permette che ciò avvenga, poiché il terapeuta offre una base sicura che consente al paziente di affrontare la paura del cambiamento e sperimentarsi in nuove possibilità di essere. In tal modo gradualmente la persona si accorgerà che tali possibilità funzionano anche al di fuori della terapia e una volta interiorizzate, le nuove modalità, si sostengono da sole per i benefici che ne conseguono.
La psicoterapia, come nuova esperienza relazionale, crea così l'opportunità di modificare le relazioni internalizzate e di configurarsi come processo di guarigione dal copione. Bowlby (1988) definì l'Alleanza Terapeutica una base sicura e il terapeuta come una nuova figura di attaccamento.
È inoltre fondamentale discutere e definire con il paziente le regole del setting; fare attenzione che esse provengano dallo Stato dell’ Io Adulto ed evitare di esprimersi in modo genitoriale o normativo. Ritengo che questo tuteli entrambi e comunichi un senso di serietà e coerenza.
È importante chiedere al paziente di esprimere il proprio parere in merito e restare attenti alla possibilità di reazioni compiacenti che escludano lo Stato dell’Io Adulto.
Berne (1961) descrive l’evoluzione della relazione terapeutica in base a fenomeni inconsci, evidenziando come gli aspetti transferali positivi consentano un’autentica alleanza terapeutica.
 La nevrosi di transfert è definita da Novellino (1987) come “una situazione clinica caratterizzata dal fatto che il paziente, tramite un elastico, rivive nella sua piena intensità emotiva l’impasse originario, vivendo inconsciamente il terapista come se fosse il polo genitoriale dell’impasse stessa”. Il paziente quindi tenderà a  risperimentare la relazione arcaica riproponendo i relativi giochi psicologici. Il paziente proietterà il bisogno insoddisfatto sul terapeuta, poiché egli viene vissuto dal paziente sia come fonte del possibile soddisfacimento del bisogno (polo positivo del transfert) sia come fonte di frustrazione.
Il controtransfert è inteso come reazione del terapeuta ai processi comunicativi inconsapevoli del paziente.
 Secondo Novellino (1987) l’analisi del controtransfert è uno strumento per avere accesso al mondo interno del paziente; il terapeuta, quando lavora con un Adulto (A2) decontaminato e con la sua capacità intuitiva (A1), è libero di leggere i processi comunicativi inconsapevoli del paziente potendo ipotizzare, a partire dalle proprie reazioni, l’esistenza di dinamiche interne al paziente delle quali quest’ultimo non è consapevole.
 L’accettazione di una relazione da transfert permette di costruire attraverso la relazione terapeutica un’esperienza correttiva e antitetica rispetto a quelle del protocollo copionale (Benjamin, 2003).

 Concludo con l’affermazione di Greenberg (2000) secondo cui la relazione terapeutica è necessaria per fornire le basi del lavoro terapeutico; generalmente sufficiente perché curativa in sé;  non sempre efficiente perché può migliorare con interventi concentrati sul compito.

domenica 23 marzo 2014

Quaderni tecnici per gli addetti ai lavori: Seconda parte. Importanza e uso del contratto nel processo terapeutico.

La terapia contrattuale rappresenta uno dei punti cardine dell’approccio dell’Analisi Transazionale ed ha come prerogativa essenziale l’aggancio alla concezione filosofica dell’OKness, che si fonda sul concetto di essere umano unitario ed originariamente completo e quindi responsabile di sé e del proprio destino/progetto.
Il contratto è concettualizzabile da due diverse prospettive connesse tra loro: il contenuto, ovvero esso è un accordo tra terapeuta e cliente circa l’obiettivo di terapia, le mete da raggiungere, le regole del setting e l’orientamento della terapia; il processo, ovvero attraverso il contratto si crea una relazione tra due persone che attivano il proprio Stato dell’Io Adulto nel cooperare per raggiungere l’obiettivo.
 Berne (1966) definì il contratto un “impegno esplicito e bilaterale preso dal cliente e dal terapeuta, o consulente, per un ben definito corso d’azione”.
Steiner (1974) evidenzia come per Berne fosse importante che tra cliente e terapeuta si stabilisse una relazione paritaria, in cui entrambi i partner avessero uguali responsabilità pur mantenendo compiti diversi, essendo entrambi in grado di funzionare a livello Adulto. Credo sia importante esplicitare i ruoli reciproci: il cliente ha il compito di individuare ciò che desidera cambiare di sé, il suo obiettivo, e  partecipa attivamente fin dall’inizio al processo di cambiamento in quanto principale conoscitore di se stesso mentre ruolo del terapeuta è di facilitatore in questo processo terapeutico in quanto mettendo a disposizione le proprie  conoscenze non ha da  risolvere i problemi del paziente, ma ha da  aiutarlo a comprendere come finora si è bloccato dal risolverli da solo (Novellino,1998).
Questo momento non solo rende esplicite le regole della terapia, ma mira all’attivazione dell’Adulto del cliente e a responsabilizzarlo, attivando la  propria capacità di pensare, la facoltà di decidere della propria vita e di modificare le decisioni precedentemente prese. Rappresentando la relazione con il modello degli Stati dell’Io, il metodo contrattuale consente di passare da un rapporto G-B, dove il cliente spera nell’intervento magico del terapeuta vissuto come onnipotente, al dialogo A-A, dove ciascuno è responsabile del proprio 50% del contributo nella relazione.
Esso evita in tal modo lo stabilirsi di una relazione di dipendenza tra cliente e terapeuta che può invalidare il processo di cambiamento. Il contratto limita l’intensità dei processi iniziali di transfert e protegge lo stesso terapeuta da un eventuale controtransfert onnipotente (Holloway, 1973).
Tra i criteri che vanno tenuti in considerazione per formulare un contratto che permetta al terapeuta di avere  chiara in ogni momento la direzione verso il cambiamento ci sono quelli individuati da Haimovitz (1979) e ripresi da Steward e Joines (1987); questi propongono per un contratto efficace che l’obiettivo sia: a) espresso in termini positivi, in modo che sia chiaro che cosa il cliente vuole fare di diverso; b) raggiungibile, date le risorse attuali e la situazione contestuale del cliente (per esempio non è possibile fare contratti per cambiare altri); c) specifico ed osservabile, per evitare lavori senza fine e per avere parametri chiari del suo raggiungimento (traducibili in termini comportamentali); d) sicuro, che tenga cioè conto del contesto di riferimento del cliente e che non lo esponga a rischi; e) formulato dall’A con la cooperazione del B L (cioè comprendente i suoi bisogni autentici) e congruo col sistema di valori della persona, per avere il sostegno del G; f) espresso con linguaggio chiaro, e chiaro relativamente ai costi ed alle perdite che il suo raggiungimento prevede (in termini economici, di impegno, di tempo, ecc.); g) tramutabile in un impegno ad un’azione specifica (ovvero che sia esplicitato quali mosse si dovranno fare per raggiungere l’obiettivo).
Nello stipulare un contratto vanno tenuti presenti inoltre i tre livelli indicati da Berne (1966):
il livello amministrativo: definisce gli aspetti professionali tra terapeuta e cliente e coincide con il setting (durata, frequenza, onorario, luogo, reperibilità);
il livello professionale: stabilisce l’obiettivo della terapia. L’accordo viene stabilito nei primi incontri ed è strettamente collegato al livello psicologico;
Il livello psicologico: si riferisce alla dimensione ulteriore della relazione terapeutica.
Dal punto di vista “tecnico” Steiner definisce quattro criteri di validità a cui far riferimento per formulare il contratto: mutuo consenso, accordo esplicito e reciproco; remunerazione valida, esplicita e concordata da entrambi le parti; competenza, il terapeuta deve disporre di competenze adeguate e il paziente deve poter accedere alle competenze Adulte durante il lavoro fatto insieme; obiettivo legale, obiettivi e modi della terapia devono essere conformi alle leggi vigenti e aderenti ai principi deontologici. 
Holloway, M. e W. (1973) hanno proposto l’esistenza di due tipi di contratti, di controllo sociale e di autonomia. I primi si focalizzano su alcuni aspetti particolari del pensiero, comportamento e sentimento che si riferiscono ad un elemento della decisione precoce; i secondi sono quelli che si concludono mettendo fine al copione di vita, per cui la persona decide di  non vivere più obbedendo all’ingiunzione e rivendica una posizione esistenziale “Io sono Ok-tu sei Ok”. Oltre ai criteri di validità per formulare un contratto ritengo importante essere attenti  a discriminare i contratti inaccettabili, e per farlo seguo le linee guida esposte dai Goulding (1979) secondo i quali i contratti inaccettabili sono quelli: a) genitoriali, basati sul dovere; b) quelli in cui si vuole cambiare un’altra persona; e c) quelli che sottendono un “gioco psicologico”.
Inoltre oltre al contratto generale è necessario stipulare, di volta in volta, i contratti di seduta con il fine di tenere presente l’argomento concordato senza inutili divagazioni che tolgono tempo alla seduta oltre ad avere il vantaggio di rendere verificabili i passi compiuti durante la seduta stessa.
 Trovo utile e opportuno prevedere una fase pre-contrattuale per definire chiaramente il problema presentato, specialmente nei casi in cui il paziente arrivi in terapia portando un malessere che risulta anche per lui poco chiaro, ed accompagnato da scarsa consapevolezza.
 E’ inoltre interessante  la suddivisione di Loomis (1982) che descrive quattro livelli di contratto di cambiamento: contratto di prendersi cura (riguarda il prendersi cura e favorisce l’alleanza di lavoro; si basa prevalentemente su permesso e protezione); contratto di controllo sociale (si basa sul problema concreto e richiede un intervento urgente per favorire il problem solving); contratto di relazione (in esso viene posto l’accento sulla natura ripetitiva del problema del paziente; si procede all’analisi del copione, si lavora al livello di A2, collegando gli eventi); contratto di cambiamento strutturale  (interviene ad un livello profondo della persona. Si lavora con l’A1 sui vissuti regressivi significativi). In genere nelle psicoterapie brevi, si può raggiungere il livello del contratto di relazione.
 I contratti nelle psicoterapie di lunga durata, invece, mirano alla ristrutturazione stessa della persona e quindi al cambiamento strutturale in termini di uscita dal copione per raggiungere l’autonomia.
Per concludere voglio sottolineare come ricercare e trovare un accordo con il paziente sull’obiettivo da raggiungere insieme consente di comunicare alla persona che si ha di fronte due messaggi a mio avviso importanti: il primo riguarda il fatto che il terapeuta non ha soluzioni magiche e che di conseguenza il rapporto è paritario; il secondo è  il valorizzare che la persona è in grado di stabilire i propri obiettivi e sa cosa è importante per lei in un determinato momento. In questo modo si comunica all’altra persona che è ok a livello esistenziale e che è competente rispetto al suo problema.