sabato 29 marzo 2014

Stress lavorativo e Yoga: una modalità pratica per migliorare la propria efficienza


  • I risultati di alcune ricerche hanno dimostrato l’incidenza dei disturbi psicologici (ansia,  depressione, ecc.) sul rendimento lavorativo del singolo e di conseguenza sul bilancio aziendale; ad esempio uno studio realizzato dal National Institutes  of Mental Health (Istituto Nazionale delle Malattie Mentali) ha evidenziato come ogni lavoratore americano afflitto da disturbi bipolari in media perda 65 giorni di lavoro l’anno, rispetto ai 27 persi da chi soffre di depressione maggiore.
    A tali disturbi vanno affiancati quelli che hanno assunto il ruolo di “malattie dell’ambito lavorativo” come la sindrome da stress  lavorativo, la sindrome del burnout, il mobbing, la dipendenza lavorativa.
    Il lavoro, oggi, non è considerato solamente come un’attività necessaria al sostentamento, ma è diventato anche un mezzo per affermarsi socialmente: bisogna essere veloci, efficienti, disponibili, sempre più bravi e preparati; quello che conta è il risultato, la produttività.
     Tutto ciò ha portato ad un accrescimento dell’identità lavorativa rispetto a quella personale.

    Lo stress da lavoro
    Lo stress o Sindrome Generale di Adattamento (SGA) viene definito come “una risposta generale aspecifica a qualsiasi richiesta (demand) proveniente dall’ ambiente” (Seyle, 1975); esso rappresenterebbe quindi la normale reazione dell’individuo alle pressioni esercitate dall’ambiente (esterno o interno, fisico o psichico) e non necessariamente ha valore negativo.  In alcuni casi, infatti, può contribuire a stimolare l’adattabilità di un individuo all’ambiente (eustress). Al contrario, se protratto nel tempo, genera scarso rendimento, disinteresse per il proprio lavoro, fuga dalle responsabilità ecc. (distress).
    Per quel che riguarda l’ambito lavorativo vediamo che lo stress è il risultato di un’interazione tra fattori organizzativi e fattori personali.
    Secondo il modello dell’Aggravio di lavoro – Job strain model (1) – lo stress lavorativo sarebbe causato soprattutto dalla combinazione di un eccessivo carico di lavoro e una scarsa possibilità di controllo sui compiti da svolgere. Quindi seppure in presenza di un carico di lavoro pesante, un lavoratore potrebbe non sentirsi stressato se percepisse di poter gestire nella maniera più opportuna tale carico.
    Il modello dello Squilibrio tra sforzo e ricompensa – Effort-rewards imbalance model (2) – ipotizza che lo stress lavorativo si riscontri in presenza di un elevato impegno da parte del lavoratore associato ad una scarsa ricompensa; che può essere intesa sia come guadagno economico, che come approvazione sociale, stabilità lavorativa o opportunità di carriera.
    Secondo la Commissione Europea, Direzione generale occupazione e affari sociali (3) i fattori più comuni che possono determinare stress legato all’attività lavorativa sono:
    • Quantità di lavoro da eseguire eccessiva oppure insufficiente.
    • Tempo insufficiente per portare a termine il lavoro in maniera soddisfacente sia per gli altri che per se stessi.
    • Mancanza di una chiara descrizione del lavoro da svolgere o di una linea gerarchica.
    • Ricompensa insufficiente, non proporzionale alla prestazione.
    • Impossibilità di esprimere lamentele.
    • Responsabilità gravose non accompagnate da autorità o potere decisionale adeguati.
    • Mancanza di collaborazione e sostegno da parte di superiori, colleghi o subordinati.
    • Impossibilità di esprimere effettivamente talenti o capacità personali
    • Precarietà del posto di lavoro, incertezza della posizione occupata.
    • Condizioni di lavoro spiacevoli o lavoro pericoloso.
    • Possibilità che un piccolo errore o disattenzione possano avere conseguenze gravi.

    Nell’organismo di una persona sottoposta a stress si osservano modificazioni nell’equilibrio del sistema endocrino e di quello nervoso che coinvolgono una serie di ormoni come ad es. il cortisolo, l’adrenalina e la noradrenalina: queste modificazioni hanno una forte incidenza su tutto il sistema cardiovascolare. Lo stress abbassa inoltre l’efficienza del sistema immunitario ed aumenta la probabilità di disturbi gastrointestinali, malattie della tiroide, diabete e incrementa il rischio di insorgenza di tumori.
    Una manifestazione del disagio professionale che ha conseguenze sull’efficienza lavorativa è rappresentata dalla sindrome del “Burnout, o “Sindrome dell’esaurimento emotivo“; che rappresenta una reazione patologizzata allo stress lavorativo e indica uno stato di insoddisfazione lavorativa, in termini fisici e psicologici, dovuta al mancato raggiungimento di un obiettivo prefissato. Si manifesta con apatia, frustrazione, mancanza di obiettivi e scarsa autostima, cui segue un forte senso di colpa dovuto all’incapacità di portare a termine i propri incarichi.
    Il burnout si manifesta con frequenti e persistenti emicranie, disturbi gastrointestinali, insonnia, eccessiva stanchezza; e con una serie di sintomi, che vanno dalle frequenti influenze ai dolori lombari,  alla tachicardia e nausea.
    Dal punto di vista psicologico si manifestano atteggiamenti quali volubilità, inclinazione all’isolamento, bassa stima di sé, sensi di colpa, rabbia e risentimento, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, fino ad arrivare a paranoia, esaurimento, depressione e una propensione all’uso di sostanze stupefacenti, farmaci o alcool. Nei casi più gravi, stati depressivi possono condurre alla malattia mentale e a pensieri suicidi. Chi ne è colpito è oltretutto incapace di chiedere aiuto, e ciò evidenzia la mancanza di un riscontro sul piano sociale.

    Tra i più comuni fattori di stress sul lavoro figura il mobbing, una violenza psicologica sul lavoro (non necessariamente a sfondo sessuale) provocata dal deteriorarsi delle relazioni interpersonali e da anomalie organizzative; una sorta di comunicazione conflittuale sul posto di lavoro, che avviene tra colleghi o tra superiori e dipendenti, nella quale la persona attaccata viene posta in una condizione di debolezza ed aggredita ripetutamente in maniera esplicita o implicita per un prolungato periodo di tempo con lo scopo preciso di mandarla via dal posto di lavoro. Gli attacchi mirano a colpire la capacità di autonomia e d’iniziativa delle vittime e a renderle insicure di sé e della propria professione: in poco tempo l’autostima vacilla e nasce il dubbio per la validità del proprio operato. Oltre a ledere il rendimento lavorativo le conseguenze del mobbing portano addirittura al suicidio, all’incirca nel 20% dei casi.
    Un’ ulteriore causa di stress lavorativo è la dipendenza lavorativa che tutt’oggi è ancora un fenomeno sottovalutato e poco riconosciuto nell’ambito del disagio psicologico con la conseguenza di una diagnosi in fase avanzata solitamente in seguito ad infarti o ad altre gravi malattie.
    Ne è maggiormente colpito il lavoratore competitivo, che ha una attitudine spiccata alla supremazia e all’autoaffermazione; il lavoratore ambizioso e orientato al successo, instancabile, indirizzato verso modelli di perfezione e grandi responsabilità.
    Chi è predisposto a questa dipendenza solitamente considera il lavoro come l’unica opportunità per vivere le interazioni sociali divenute precarie per via degli impegni quotidiani: le ore dedicate agli straordinari possono rappresentare un modo per evitare la solitudine o l’assenza di un nucleo familiare. C’è chi si dedica anima e corpo al lavoro per sottrarsi ad un disagio sentimentale o familiare o chi nutre la propria autostima solo attraverso conferme e riconoscimenti sociali o ancora chi si lascia sovraccaricare di lavoro per un bisogno di auto-punizione. Chi soffre di questa dipendenza, si porta il lavoro in vacanza o nei fine settimana, non si assenta mai né per necessità né per malattia, può avere crisi di astinenza, provare sensazioni di vuoto angoscia e nervosismo quando è lontano dal lavoro, può avere paura di perdere il lavoro, incubi relativi a errori o insuccessi e spesso è incapace di ritagliarsi del tempo per svaghi e divertimenti; automaticamente, nonostante il lavoro occupi l’intera vita di questi individui il rendimento è piuttosto scarso.

    Andiamo ad analizzare quali sono le modalità per controllare e risolvere lo stress lavorativo e di conseguenza aumentare la propria efficienza lavorativa.
    • Acquistare consapevolezza dei fattori che creano stress, valutando le fonti e dove è possibile intervenire urgentemente.
    • Valutare il proprio grado di coinvolgimento nel lavoro, consapevoli che il posto di lavoro non deve sostituire il nucleo familiare e che investire troppo dal punto di vista affettivo è pericoloso.
    • Modificare la valutazione cognitiva dell’ambiente, riconoscere la differenza tra le cose che si possono controllare e quelle che non si possono controllare. È necessario chiedersi a riguardo come stiamo vivendo la situazione fonte di stress e se esistono modalità alternative di affrontarla (in questa situazione è possibile appoggiarsi ad un amico, ad uno psicologo, al partner).
    • Rivedere la scala di valori, dando il giusto peso a ciò che esiste al di fuori del lavoro come la famiglia, gli amici e gli altri interessi. Ambiti in cui le soddisfazioni possono compensare lo stress da lavoro.
    • Pianificare le attività, imparare a delegare tutto ciò che è delegabile e a distinguere tra cose importanti e cose meno urgenti.
    • Realizzare Tecniche di Hatha Yoga, tecniche di rilassamento e di concentrazione e meditazione: l’applicazione di tale disciplina, infatti, agisce in maniera sinergica sui vari aspetti che risultano “colpiti” dallo stress portando alla riduzione e all’eliminazione dell’uso di farmaci.
    Le posture permettono di ristabilire l’equilibrio fisico eliminando i vari disturbi somati come emicranie, disturbi gastrointestinali, dolori lombari, e ristabiliscono inoltre l’equilibrio ormonale.
    Le tecniche di rilassamento permettono un recupero rapido delle energie e l’acquisizione di uno stato di distensione totale sia fisica che psichica.
    Le tecniche di concentrazione e meditazione permettono di amplificare la capacità di focalizzazione mentale, la concentrazione, l’attenzione e la memoria; oltre a favorire l’eliminazione degli stati di irascibilità, risentimento e sensi di colpa.
    A tale proposito ho potuto notare che realizzare delle sedute di yoga nell’ambito lavorativo (ad es. durante la pausa pranzo o al termine del turno lavorativo) oltre a favorire un processo individuale di recupero e armonizzazione delle energie, permette di creare tra i partecipanti (colleghi) nuove modalità di interazione e di condivisione che possono portare al superamento di alcune dinamiche lavorative spiacevoli.
    • Fare delle pause nel corso della giornata, per cercare di riprendere il contatto con se stessi: realizzare una passeggiata in natura, può essere molto rigenerante e permette di tornare al lavoro con rinnovata energia e lucidità, inoltre l’esercizio fisico costante libera endorfine endogene, una sorta di “droga naturale” che aiuta a sentirci meglio, e ci aiuta a prevenire sia i danni cardiovascolari che quelli muscolo-scheletrici dovuti allo stress lavorativo
    • Prendersi cura di sé stessi e del proprio corpo: curare l’ alimentazione e prevedere degli adeguati periodi di riposi.
    • Orientare la propria attenzione anche ad altre attività (gruppi di volontariato, associazioni culturali…) che permettono di ottenere nuove gratificazioni e soddisfazioni.
    • Pensare positivo : prendere nota dei successi lavorativi e imparare a ricompensarsi. È importante imparare a porsi degli obiettivi a breve termine e a sentirsi soddisfatti quando vengono raggiunti. Cercare di non considerare le critiche come un attacco personale bensì come un’opportunità di crescita.
    • Coltivare l’humor, sia riguardo sé stessi che riguardo le situazioni da affrontare.
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mercoledì 26 marzo 2014

La Relazione Terapeutica.Quaderni tecnici per gli addetti ai lavori: Terza parte

Guidano & Liotti affermavano che  “La relazione terapeutica è un rapporto reale nella vita del paziente e può essere l'elemento che più di ogni altro influisce sull'efficacia e l'incisività dell'intervento” (Guidano & Liotti, 1979).
Rogers parlava di relazione terapeutica come “elemento curativo di base” (Rogers, 1951); e sosteneva che il terapeuta, al fine di facilitare il cambiamento, deve porsi con un atteggiamento empatico, astenersi dai giudizi ed essere genuino (Rogers 1957).
Questo modo di intendere la relazione terapeutica è molto vicino ai concetti dell'Analisi Transazionale, ovvero che “ognuno è Ok”, ognuno ha la capacità di pensare, ognuno decide del proprio destino e queste decisioni possono essere cambiate (Steward & Joines, 1990). Partendo da questi presupposti il lavoro terapeutico, visto come una relazione collaborativa in cui entrambi mettono in campo le rispettive risorse e competenze, deve essere teso a far sì che il cliente recuperi la propria consapevolezza, spontaneità, intimità e quindi la propria autonomia (Berne, 1964).
Ritengo che tali affermazioni evidenziano il valore della relazione in sé nel lavoro terapeutico e nel processo di cambiamento; e come l’istaurarsi di un rapporto paritario basato sul rispetto reciproco, sulla fiducia e cooperazione siano condizione fondamentale per il buon esito della psicoterapia.
Alla luce di questi assunti, il primo passo che è fondamentale compiere nel processo terapeutico è la costruzione di una buona Alleanza, ossia di quella sinergia emotiva e operativa tra terapeuta e cliente che aiuta quest’ ultimo ad impegnarsi con speranza, fiducia e partecipazione attiva nei compiti richiesti dalla terapia.
 Per facilitarla è essenziale cogliere la prospettiva dell’altro “guardando il mondo attraverso i suoi occhi” soffermandomi su ciò che sembra cruciale e toccante; il paziente ha bisogno di essere ascoltato, di sentirsi accolto e compreso e in questa direzione possono risultare utili interventi di sostegno empatico, di riformulazione, domande di chiarificazione, parafrasi e rispecchiamento (Scilligo, 1991, 1992; Ivey & Ivey, 2004).
Dice Berne che attraverso il terapeuta, il paziente ha la possibilità di sperimentare nel vivo della seduta nuovi modi di interagire che consentono un nuovo apprendimento interpersonale e la costruzione di un senso di sicurezza di sé sufficiente ad eseguire i passi per cambiare (Berne, 1966).
 L’Alleanza può anche includere secondo la Benjamin (2003) forme di legame che implicano diverse versioni dell’attaccamento.
Lo spazio della terapia permette che ciò avvenga, poiché il terapeuta offre una base sicura che consente al paziente di affrontare la paura del cambiamento e sperimentarsi in nuove possibilità di essere. In tal modo gradualmente la persona si accorgerà che tali possibilità funzionano anche al di fuori della terapia e una volta interiorizzate, le nuove modalità, si sostengono da sole per i benefici che ne conseguono.
La psicoterapia, come nuova esperienza relazionale, crea così l'opportunità di modificare le relazioni internalizzate e di configurarsi come processo di guarigione dal copione. Bowlby (1988) definì l'Alleanza Terapeutica una base sicura e il terapeuta come una nuova figura di attaccamento.
È inoltre fondamentale discutere e definire con il paziente le regole del setting; fare attenzione che esse provengano dallo Stato dell’ Io Adulto ed evitare di esprimersi in modo genitoriale o normativo. Ritengo che questo tuteli entrambi e comunichi un senso di serietà e coerenza.
È importante chiedere al paziente di esprimere il proprio parere in merito e restare attenti alla possibilità di reazioni compiacenti che escludano lo Stato dell’Io Adulto.
Berne (1961) descrive l’evoluzione della relazione terapeutica in base a fenomeni inconsci, evidenziando come gli aspetti transferali positivi consentano un’autentica alleanza terapeutica.
 La nevrosi di transfert è definita da Novellino (1987) come “una situazione clinica caratterizzata dal fatto che il paziente, tramite un elastico, rivive nella sua piena intensità emotiva l’impasse originario, vivendo inconsciamente il terapista come se fosse il polo genitoriale dell’impasse stessa”. Il paziente quindi tenderà a  risperimentare la relazione arcaica riproponendo i relativi giochi psicologici. Il paziente proietterà il bisogno insoddisfatto sul terapeuta, poiché egli viene vissuto dal paziente sia come fonte del possibile soddisfacimento del bisogno (polo positivo del transfert) sia come fonte di frustrazione.
Il controtransfert è inteso come reazione del terapeuta ai processi comunicativi inconsapevoli del paziente.
 Secondo Novellino (1987) l’analisi del controtransfert è uno strumento per avere accesso al mondo interno del paziente; il terapeuta, quando lavora con un Adulto (A2) decontaminato e con la sua capacità intuitiva (A1), è libero di leggere i processi comunicativi inconsapevoli del paziente potendo ipotizzare, a partire dalle proprie reazioni, l’esistenza di dinamiche interne al paziente delle quali quest’ultimo non è consapevole.
 L’accettazione di una relazione da transfert permette di costruire attraverso la relazione terapeutica un’esperienza correttiva e antitetica rispetto a quelle del protocollo copionale (Benjamin, 2003).

 Concludo con l’affermazione di Greenberg (2000) secondo cui la relazione terapeutica è necessaria per fornire le basi del lavoro terapeutico; generalmente sufficiente perché curativa in sé;  non sempre efficiente perché può migliorare con interventi concentrati sul compito.

domenica 23 marzo 2014

Quaderni tecnici per gli addetti ai lavori: Seconda parte. Importanza e uso del contratto nel processo terapeutico.

La terapia contrattuale rappresenta uno dei punti cardine dell’approccio dell’Analisi Transazionale ed ha come prerogativa essenziale l’aggancio alla concezione filosofica dell’OKness, che si fonda sul concetto di essere umano unitario ed originariamente completo e quindi responsabile di sé e del proprio destino/progetto.
Il contratto è concettualizzabile da due diverse prospettive connesse tra loro: il contenuto, ovvero esso è un accordo tra terapeuta e cliente circa l’obiettivo di terapia, le mete da raggiungere, le regole del setting e l’orientamento della terapia; il processo, ovvero attraverso il contratto si crea una relazione tra due persone che attivano il proprio Stato dell’Io Adulto nel cooperare per raggiungere l’obiettivo.
 Berne (1966) definì il contratto un “impegno esplicito e bilaterale preso dal cliente e dal terapeuta, o consulente, per un ben definito corso d’azione”.
Steiner (1974) evidenzia come per Berne fosse importante che tra cliente e terapeuta si stabilisse una relazione paritaria, in cui entrambi i partner avessero uguali responsabilità pur mantenendo compiti diversi, essendo entrambi in grado di funzionare a livello Adulto. Credo sia importante esplicitare i ruoli reciproci: il cliente ha il compito di individuare ciò che desidera cambiare di sé, il suo obiettivo, e  partecipa attivamente fin dall’inizio al processo di cambiamento in quanto principale conoscitore di se stesso mentre ruolo del terapeuta è di facilitatore in questo processo terapeutico in quanto mettendo a disposizione le proprie  conoscenze non ha da  risolvere i problemi del paziente, ma ha da  aiutarlo a comprendere come finora si è bloccato dal risolverli da solo (Novellino,1998).
Questo momento non solo rende esplicite le regole della terapia, ma mira all’attivazione dell’Adulto del cliente e a responsabilizzarlo, attivando la  propria capacità di pensare, la facoltà di decidere della propria vita e di modificare le decisioni precedentemente prese. Rappresentando la relazione con il modello degli Stati dell’Io, il metodo contrattuale consente di passare da un rapporto G-B, dove il cliente spera nell’intervento magico del terapeuta vissuto come onnipotente, al dialogo A-A, dove ciascuno è responsabile del proprio 50% del contributo nella relazione.
Esso evita in tal modo lo stabilirsi di una relazione di dipendenza tra cliente e terapeuta che può invalidare il processo di cambiamento. Il contratto limita l’intensità dei processi iniziali di transfert e protegge lo stesso terapeuta da un eventuale controtransfert onnipotente (Holloway, 1973).
Tra i criteri che vanno tenuti in considerazione per formulare un contratto che permetta al terapeuta di avere  chiara in ogni momento la direzione verso il cambiamento ci sono quelli individuati da Haimovitz (1979) e ripresi da Steward e Joines (1987); questi propongono per un contratto efficace che l’obiettivo sia: a) espresso in termini positivi, in modo che sia chiaro che cosa il cliente vuole fare di diverso; b) raggiungibile, date le risorse attuali e la situazione contestuale del cliente (per esempio non è possibile fare contratti per cambiare altri); c) specifico ed osservabile, per evitare lavori senza fine e per avere parametri chiari del suo raggiungimento (traducibili in termini comportamentali); d) sicuro, che tenga cioè conto del contesto di riferimento del cliente e che non lo esponga a rischi; e) formulato dall’A con la cooperazione del B L (cioè comprendente i suoi bisogni autentici) e congruo col sistema di valori della persona, per avere il sostegno del G; f) espresso con linguaggio chiaro, e chiaro relativamente ai costi ed alle perdite che il suo raggiungimento prevede (in termini economici, di impegno, di tempo, ecc.); g) tramutabile in un impegno ad un’azione specifica (ovvero che sia esplicitato quali mosse si dovranno fare per raggiungere l’obiettivo).
Nello stipulare un contratto vanno tenuti presenti inoltre i tre livelli indicati da Berne (1966):
il livello amministrativo: definisce gli aspetti professionali tra terapeuta e cliente e coincide con il setting (durata, frequenza, onorario, luogo, reperibilità);
il livello professionale: stabilisce l’obiettivo della terapia. L’accordo viene stabilito nei primi incontri ed è strettamente collegato al livello psicologico;
Il livello psicologico: si riferisce alla dimensione ulteriore della relazione terapeutica.
Dal punto di vista “tecnico” Steiner definisce quattro criteri di validità a cui far riferimento per formulare il contratto: mutuo consenso, accordo esplicito e reciproco; remunerazione valida, esplicita e concordata da entrambi le parti; competenza, il terapeuta deve disporre di competenze adeguate e il paziente deve poter accedere alle competenze Adulte durante il lavoro fatto insieme; obiettivo legale, obiettivi e modi della terapia devono essere conformi alle leggi vigenti e aderenti ai principi deontologici. 
Holloway, M. e W. (1973) hanno proposto l’esistenza di due tipi di contratti, di controllo sociale e di autonomia. I primi si focalizzano su alcuni aspetti particolari del pensiero, comportamento e sentimento che si riferiscono ad un elemento della decisione precoce; i secondi sono quelli che si concludono mettendo fine al copione di vita, per cui la persona decide di  non vivere più obbedendo all’ingiunzione e rivendica una posizione esistenziale “Io sono Ok-tu sei Ok”. Oltre ai criteri di validità per formulare un contratto ritengo importante essere attenti  a discriminare i contratti inaccettabili, e per farlo seguo le linee guida esposte dai Goulding (1979) secondo i quali i contratti inaccettabili sono quelli: a) genitoriali, basati sul dovere; b) quelli in cui si vuole cambiare un’altra persona; e c) quelli che sottendono un “gioco psicologico”.
Inoltre oltre al contratto generale è necessario stipulare, di volta in volta, i contratti di seduta con il fine di tenere presente l’argomento concordato senza inutili divagazioni che tolgono tempo alla seduta oltre ad avere il vantaggio di rendere verificabili i passi compiuti durante la seduta stessa.
 Trovo utile e opportuno prevedere una fase pre-contrattuale per definire chiaramente il problema presentato, specialmente nei casi in cui il paziente arrivi in terapia portando un malessere che risulta anche per lui poco chiaro, ed accompagnato da scarsa consapevolezza.
 E’ inoltre interessante  la suddivisione di Loomis (1982) che descrive quattro livelli di contratto di cambiamento: contratto di prendersi cura (riguarda il prendersi cura e favorisce l’alleanza di lavoro; si basa prevalentemente su permesso e protezione); contratto di controllo sociale (si basa sul problema concreto e richiede un intervento urgente per favorire il problem solving); contratto di relazione (in esso viene posto l’accento sulla natura ripetitiva del problema del paziente; si procede all’analisi del copione, si lavora al livello di A2, collegando gli eventi); contratto di cambiamento strutturale  (interviene ad un livello profondo della persona. Si lavora con l’A1 sui vissuti regressivi significativi). In genere nelle psicoterapie brevi, si può raggiungere il livello del contratto di relazione.
 I contratti nelle psicoterapie di lunga durata, invece, mirano alla ristrutturazione stessa della persona e quindi al cambiamento strutturale in termini di uscita dal copione per raggiungere l’autonomia.
Per concludere voglio sottolineare come ricercare e trovare un accordo con il paziente sull’obiettivo da raggiungere insieme consente di comunicare alla persona che si ha di fronte due messaggi a mio avviso importanti: il primo riguarda il fatto che il terapeuta non ha soluzioni magiche e che di conseguenza il rapporto è paritario; il secondo è  il valorizzare che la persona è in grado di stabilire i propri obiettivi e sa cosa è importante per lei in un determinato momento. In questo modo si comunica all’altra persona che è ok a livello esistenziale e che è competente rispetto al suo problema.



sabato 22 marzo 2014

Quaderni tecnici per gli addetti ai lavori: Il Cambiamento in Psicoterapia secondo l’Analisi Transazionale.

Nel lavoro terapeutico una delle domande principali da cui partire è il domandarsi  cosa spinge la persona a sentire la necessità di cambiamento.
 A riguardo Novellino afferma che “Il cambiamento viene considerato in psicologia generale e clinica come il risultato della spinta alla trasformazione avvertita dall’organismo” (Novellino M., 1998); questo implica che la persona, in un dato momento della sua vita, avverta la necessità di comprendere e trasformare aspetti di sé che non avverte più come  funzionali alla realtà che sta vivendo. Considero quindi il cambiamento come sinonimo di evoluzione.
Questa evoluzione, che va nella direzione della crescita e del benessere e che viene intrapresa attivamente dal paziente, è possibile attraverso l’istaurarsi di una relazione tra paziente e terapeuta nella quale viene stipulato un contratto chiaro e con lo scopo di raggiungere il cambiamento. In tale relazione il terapeuta attraverso le proprie competenze facilita il cambiamento, usando le risorse del paziente e stimolando nuove competenze.
In altre parole la persona, grazie all’interazione con il terapeuta, scopre di avere alternative di fronte ai problemi che vive e che prima non sentiva di avere, diventa consapevole del senso del suo autolimitarsi all’interno della sua storia e si dà il permesso di modificare la propria immagine di sé e i significati che attribuisce alle situazioni rendendosi conto che ciò non costituisce per lei, oggi, una minaccia.
 Secondo l’ Analisi Transazionale (AT) cambiare significa utilizzare l’energia psichica attiva nello Stato dell’Io Adulto, affinché l’individuo possa agire nella situazione presente in modo appropriato ed efficace ricorrendo agli insegnamenti introiettati nel Genitore e esprimendo liberamente i vissuti del Bambino, in piena autonomia.
Seguendo l’ AT quale sistema di riferimento teorico, le basi attorno a cui ruota il concetto di cambiamento personale sono:
-       il modello degli Stati dell’Io con l’egogramma,
-       il concetto di copione
-      la  ridecisione.
 Il concetto di Stati dell’Io e la loro rappresentazione attraverso l’egogramma consentono alla persona di costruirsi una mappa del proprio funzionamento e di visualizzare in modo semplice e chiaro quali aspetti di sé vuole potenziare e quali contenere.
Autori come Berne (1979) e Erskine (1993), a cui faccio riferimento, descrivono il cambiamento in termini di liberazione e guarigione dal copione, in questo modo il cambiamento viene visto in termini di modello decisionale, dove le prime decisioni di copione possono essere cambiate per uscire dal copione e raggiungere l’autonomia.
“Guarire dal copione” coincide per Berne nel poter divenire liberi di entrare in contatto con gli altri e trovare soluzioni ai problemi senza idee o piani  preconcetti che condizionino la realtà e limitino le scelte comportamentali, recuperando in questo modo 3 capacità fondamentali: consapevolezza, spontaneità e intimità.
Dove la  consapevolezza permette di  poter stare in contatto con gli stimoli esterni e le proprie sensazioni nel qui ed ora senza filtrare il presente con le esperienze passate; la spontaneità permette di poter reagire liberamente da tutti e tre gli Stati dell’Io senza dover obbedire a vecchi messaggi genitoriali e l’intimità permette di poter condividere con gli altri emozioni autentiche e non quelle caratteristiche di giochi o racketeering ( Stewart & Joines,1987).
Inoltre quando si parla di cambiamento è bene tenere in  considerazione anche il modello della  ridecisione dei Goulding.
Ridecidere significa cambiare una decisione originale di copione che, da un punto di vista strategico, nella pratica clinica implica aiutare il paziente affinché possa prendere contatto con l’impasse originario cosicché da una posizione di accoglienza nei confronti dei bisogni insoddisfatti dello stato dell’Io Bambino possa darsi il permesso di acquisire una visione nuova e positiva dell’evento originario di copione. Questo aspetto illustra come la persona ha oggi, come allora, il potere di revisionare la propria scelta e cambiare il proprio copione attraverso il lavoro di terapia alla luce di bisogni nuovi e più autentici.
Per facilitare il processo di cambiamento ritengo fondamentale creare innanzitutto una buona Alleanza terapeutica curando nella relazione l’empatia e l’accettazione dell’altro e facilitando la creazione di un piano di scambi paritario tra Adulto-Adulto e non giudicante.
Inoltre ritengo altrettanto importante arrivare alla  formulazione di un contratto che consenta di rendere condiviso, oltre che esplicito, l’obiettivo che il paziente ha intenzione di raggiungere, permettendo in questo modo di responsabilizzare l’individuo rispetto al suo processo di cambiamento senza correre il rischio di passivizzarsi rispetto al terapeuta. In tale direzione è importante valutare il livello di cambiamento stesso che il paziente è disposto a fare: se la persona vuole affrontare, per esempio, il livello sintomatico/situazionale il tipo di intervento sarà orientato alla formulazione di un contratto di controllo sociale, dove il focus di intervento è prevalentemente l’elaborazione di dati usando l’A2 con un lavoro di decontaminazione ed esclusione e l’utilizzo di tecniche di analisi strutturale.
Lo spostamento da un livello più basso a uno più alto in termini di contratto implicherà una rinegoziazione del contratto e un focus orientato ad un lavoro maggiormente intrapsichico (per esempio un lavoro sulle decisioni di copione, sugli schemi relazionali etc.).
Le fasi strategiche che è bene tenere presenti come quadro di riferimento nell’intervento sono quelle indicate da Novellino (Novellino,1998; Novellino e Moiso,1990) dell’Alleanza, che ha come fine a livello sociale quello di stipulare un contratto valido e a livello psicologico quello di stabile una dimensione transferale adatta al processo terapeutico (in questa fase si utilizza l’ascolto attivo, l’empatia avanzata e le operazioni berniane come l’interrogazione e la specificazione).
 Della Decontaminazione, per decontaminare l’A e chiarire le interazioni patologiche tra G, A, B. A questo punto il paziente diviene in grado di analizzare transazioni e giochi con una buona consapevolezza e controllo anche dei propri sintomi.
Della Deconfusione per fare l’analisi dei conflitti presenti nel B, è in questa fase che ha luogo la risoluzione dell’impasse, l’elaborzione e l’integrazione del conflitto allo scopo di raggiungere l’autonomia (Goulding & Goulding, 1979); è possibile ricontattare la vecchia decisione e sostituirla con una nuova più funzionale (le operazioni berniane più utilizzate sono l’interpretazione e la cristallizzazione in quanto aiutano il paziente ad attribuire significato al sintomo, dopo aver utilizzato l’illustrazione e la conferma per stabilizzare l’A) ; e del Riapprendimento, dove  si stabilizzano e si verificano i cambiamenti favoriti nelle fasi precedenti.