sabato 14 novembre 2015

LA (S)FORTUNA DI ESSERE GIOVANI OGGI

Osservare, porsi domande e cercare di comprendere il perché di atteggiamenti o situazioni che si ripetono  è una delle meravigliose possibilità che abbiamo in quanto esseri dotati di coscienza e capacità riflessiva. 
Mi è capitato, più di una volta, di riflettere e confrontarmi su come la maggior parte dei giovani di oggi si rapporti alla vita, stimolata non solo da una casistica corposa di giovani pazienti ma anche da un’evidente espressione “scocciata” e priva di entusiasmo che risalta tra i ragazzi di oggi  semplicemente guardandosi intorno.

Si sentono spesso anziani fare affermazioni del tipo “quando eravamo giovani noi non avevamo tutte queste cose eppure eravamo felici”, o  ancora “bastava poco per divertirci e stare bene”.
Perché allora oggi la situazione appare diversa?
 Mi guardo intorno (ho la (s)fortuna di avere ben 5 scuole allineante sotto casa) e vedo giovani ragazzi/e per la maggior parte ben curati esteticamente, alla moda e con lo smartphone sempre in mano, li vedo fare gruppi in piazza (alcuni festeggiano i compleanni aspettando la mezzanotte sulle panchine); noto a volte ragazze sputare a terra  e avere atteggiamenti posturali da giocatore di baseball, ragazzi che si animano per una partita di calcio giocata male.
 Poi ci sono quelli che “si fanno notare”: per una magrezza che implora aiuto, per le bestemmie che li precedono e li seguono, per  l’atteggiamento provocatorio verso tutto ciò che incontrano ecc.

Cosa differenzia ieri dall'oggi?  Penso al concetto di  valori personali, ne  cerco il significato letterale e leggo:“i valori personali sono le nostre credenze essenziali, i concetti su cui basiamo la nostra vita, il suo scopo e il nostro stesso scopo”.
Una delle cause del malessere con cui molti giovani si confrontano oggi, è il frutto di uno stile di vita sbagliato causato dalla mancanza di valori e punti di riferimento. Questo porta il giovane ad assimilare le informazioni (spesso contraddittorie) in maniera caotica, a non sviluppare una chiara percezione di sé, a non conoscere cosa realmente ama, cosa gli piace, cosa lo rende felice, unico rispetto agli altri. Da qui si sviluppa un malessere interiore e questo diventa il terreno fertile per la manifestazione di disparate patologie  tra cui quelle alimentari di cui tanto si parla negli ultimi anni.  In quest’ottica  i DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare)  evidenziano un problema molto profondo; nella fattispecie l’anoressia può essere vista come un rifiuto di sentirsi nutriti dalla società in quanto non si trova niente di interessante in essa.  L’aridità del mondo circostante diventa un’aridità interiore.
Come uscirne?
Imparando a porsi delle domande, a riflettere, a prendere delle decisioni e ancor prima a conoscersi. Sarebbe importante trovare, se ancora non si hanno, dei punti di riferimento scegliendo persone o contesti che accrescano non solo la conoscenza ma anche il proprio bagaglio interiore. Diventa necessario imparare a distanziarsi da alcuni atteggiamenti di massa senza temere le differenze, e stabilire dei valori da applicare alla propria esistenza; non ultimo, è fondamentale tra gli scopi che vengono prefissati nel corso della vita trovarne almeno uno che sia elevato.

lunedì 18 maggio 2015

Sui Lovegiver


Vorrei spendere due parole riguardo una realtà che ormai da qualche anno è entrata a far parte delle “competenze” di alcuni psicologi, terapeuti e operatori della salute: quella del lovegiver ovvero dell’assistente sessuale per persone con disabilità.
Ciò che mi ha colpito di più non è tanto la portata che il fenomeno ha raggiunto in vari paesi (tra cui l’Italia), ma è il fatto che venga presentata come  naturale e necessaria, da una maggioranza, l’esistenza di una simile figura senza porsi minimamente delle domande di ordine etico.

Lovegiver, sexability, sexcounselor sono alcuni dei termini usati nel settore: oggi per diventare lovegiver  basta fare un corso teorico/pratico sulla sessualità e avere le caratteristiche psicofisiche e sessuali sane (?!); scopo del corso è quello di preparare degli operatori (sexcounselor) che aiutino la persona a sviluppare sexability ovvero capacità di provare piacere a prescindere dai limiti dovuti alla disabilità. In buona sostanza si fanno massaggi, si arriva a contatti di corpi e eventuale masturbazione dell’assistito/a se da solo/a non riesce.

Un primo passo importante sarebbe quello di dare il giusto nome alle cose: si fa un corso per vendere sessualità o in altre parole si fa prostituzione professionale (dato che devi frequentare un corso per farlo).
Chi porta avanti questo progetto (perché è come progetto che nasce)  parte dal presupposto che “ il sesso è un diritto per tutti”  e  che per capire quello che vivono i disabili bisognerebbe  “provate a stare senza fare sesso per un anno!”; facendo passare la sessualità come un aspetto imprescindibile dal concetto di salute e benessere. Questo però sembra contravvenire a diversi studi e situazioni  in cui invece l’astinenza,  per alcuni periodi o anche prolunagata, può giovare alla persona più di un’attività sessuale fine a se stessa.
È già perché il concetto di amore non appare, giustamente, in questo tipo di programma: gli operatori che “sostengono emotivamente l’assistito” lo fanno,  presumo,  con il dovuto distacco che è richiesto e necessario in ogni tipo di intervento di aiuto. Il tutto tralasciando che dall’altra parte la persona può sviluppare una forma di amore e attaccamento con il rischio di arrivare a soffrire creandosi addirittura dei veri e propri castelli di sabbia che una volta caduti potrebbero arrecare più danni dell’astinenza in sé!
Personalmente credo che la sessualità abbia un valore simile nel caso di una persona disabile e di una normodotata, con questo intendo dire che quando questa rientra in un contesto ottimale, come conseguenza di una relazione affettiva profonda, allora può ritenersi sana.

Perché invece di creare esperti di sessualità non creiamo, in quanto professionisti del settore psicologico, interventi tesi a sostenere le difficoltà con cui possono confrontarsi alcuni disabili quando si tratta di porsi in relazione intima con qualcuno? Perché non creare interventi che favoriscano e sviluppino la capacità di socializzazione e di scambio comunicativo e che favoriscano la creazione di relazioni?
Mi sembra che sia un po’ come il discorso dello scegliere tra l’insegnare a coltivare la terra, a chi ha bisogno di mangiare; o l’offrire, al suo posto ogni tanto, qualcosa da mangiare.



  

sabato 16 maggio 2015

Spunti di riflessione


La morte è per molti qualcosa di spaventoso, qualcosa di cui aver paura. L'ignoto, la mancanza di controllo associati all'evento portano spesso l'individuo a evitare di pensare, se non quando gli eventi della vita lo costringano,  a questo passaggio importante. Così la vita trascorre e l'attenzione rischia di essere rivolta solo agli aspetti prettamente materiali orientati a soddisfazioni e realizzazioni di base.
 Bisognerebbe imparare a trovarsi del tempo nell'arco  della giornata in cui restare soli con se stessi  a porsi delle domande importanti  tipo "qual'è il senso della vita?", "sono felice?" "che rapporto ho con l’Assoluto?” ecc.;  domande che favoriscano un arricchimento interiore e che siano nutrimento per la propria anima.
Un'altra cosa che sarebbe bene imparare a fare è quella di trovare degli spazi in cui allontanarsi dalle continue sollecitazioni a cui si è sottoposti quotidianamente  e provare a restare in silenzio  imparando ad ascoltarsi e ad assaporare il vissuto che appare.
Tempo fa il mio Maestro Virgil Calin ci chiese:
Se vi venisse detto che vi restano poche ore di vita cosa fareste?”
Buona riflessione

mercoledì 1 aprile 2015

"OGNI COSA AL SUO POSTO"


Ho potuto notare che capita ad alcuni di farsi delle domande riguardo alcuni modi di fare, posizioni prese e affermazioni che sono comuni a chi appartiene al settore del benessere psicologico della persona. 
Ad esempio alcune frasi del tipo: “non è questo il contesto per affrontare l’argomento”, “ non faccio interpretazioni dei sogni via chat/telefono”, “si sono terapeuta ma non ti sto analizzando mentre stiamo chiacchierando tra amici!” pur facendo magari sorridere chi le legge possono essere per un addetto ai lavori all’ordine del giorno.
Credo che a riguardo sia utile comprendere alcuni aspetti importanti della nostra professione partendo prima di  tutto facendo una distinzione tra i vari tipi di richiesta  che si possono rivolgere a un terapeuta. La consulenza può essere richiesta partendo da disparate necessità e in base a questa il tipo di intervento è diverso e ha durata variabile, abbiamo:
ü  la consulenza psicologica nella quale richiediamo al professionista appunto una consulenza riguardo  a un aspetto problematico con cui ci confrontiamo in un preciso momento o su cui abbiamo dei dubbi e dobbiamo fare maggior chiarezza: ad es. quando si hanno difficoltà nella scelta da prendere in un determinato ambito e così via.
ü  Sostegno psicologico dove la richiesta è quella di avere un appoggio, appunto un sostegno,  nell’affrontare un momento di vita difficile: un lutto, la chiusura di un rapporto, un cambiamento improvviso.
ü  Sostegno alla genitorialità dove la richiesta è specifica e va nella direzione di ricevere competenze specifiche (problem solving) necessarie per affrontare delle difficoltà nel rapporto con i propri figli in base all’età/fasi di quest’ultimi e all’eventuale riattivarsi di aspetti personali del genitore.
ü  Terapia vera e propria dove la richiesta è quella di poter esplorare aspetti più profondi con il desiderio di poter trasformare aspetti della propria struttura di personalità che non sono più funzionali in un dato momento. Lo scopo è quello di ottenere una conoscenza di “come si funziona” e una ristrutturazione con il conseguente cambiamento di comportamenti, modi di porsi ecc.


A prescindere dal tipo di richiesta con cui si parte è fondamentale comprendere, come prima tappa, che si sta facendo una richiesta e in quanto tale è importante che le venga dato il giusto valore.
Questo significa ad esempio fare in modo che non avvenga in un contesto inopportuno, in un modo che possa svalutare l’esperienza o, ancor più importante, in una situazione dove il professionista si possa ritrovare a non poter approfondire adeguatamente l’argomento rischiando quindi di dover dare risposte generiche. Questo è uno dei motivi per cui  nel nostro campo evitiamo di fare “la terapia da salotto” con gli amici. A riguardo ricordo di una docente che scuola di psicoterapia che raccontava di come a una cena con persone nuove amici del marito si fosse ritrovata a  sussurrare che fosse una terapeuta per evitare situazioni che già conosceva dove il risultato era una gran svalutazione del lavoro che facciamo.
Ecco perché è importante anche dare il giusto compenso alla consulenza richiesta a prescindere dal tipo di consulenza e dal tipo di professionista che contattiamo: ogni cosa ha il suo valore e il tempo speso dietro a un colloquio, dietro a un trattamento ecc. a volte è molto di più di quello che appare dall’esterno.