lunedì 18 maggio 2015

Sui Lovegiver


Vorrei spendere due parole riguardo una realtà che ormai da qualche anno è entrata a far parte delle “competenze” di alcuni psicologi, terapeuti e operatori della salute: quella del lovegiver ovvero dell’assistente sessuale per persone con disabilità.
Ciò che mi ha colpito di più non è tanto la portata che il fenomeno ha raggiunto in vari paesi (tra cui l’Italia), ma è il fatto che venga presentata come  naturale e necessaria, da una maggioranza, l’esistenza di una simile figura senza porsi minimamente delle domande di ordine etico.

Lovegiver, sexability, sexcounselor sono alcuni dei termini usati nel settore: oggi per diventare lovegiver  basta fare un corso teorico/pratico sulla sessualità e avere le caratteristiche psicofisiche e sessuali sane (?!); scopo del corso è quello di preparare degli operatori (sexcounselor) che aiutino la persona a sviluppare sexability ovvero capacità di provare piacere a prescindere dai limiti dovuti alla disabilità. In buona sostanza si fanno massaggi, si arriva a contatti di corpi e eventuale masturbazione dell’assistito/a se da solo/a non riesce.

Un primo passo importante sarebbe quello di dare il giusto nome alle cose: si fa un corso per vendere sessualità o in altre parole si fa prostituzione professionale (dato che devi frequentare un corso per farlo).
Chi porta avanti questo progetto (perché è come progetto che nasce)  parte dal presupposto che “ il sesso è un diritto per tutti”  e  che per capire quello che vivono i disabili bisognerebbe  “provate a stare senza fare sesso per un anno!”; facendo passare la sessualità come un aspetto imprescindibile dal concetto di salute e benessere. Questo però sembra contravvenire a diversi studi e situazioni  in cui invece l’astinenza,  per alcuni periodi o anche prolunagata, può giovare alla persona più di un’attività sessuale fine a se stessa.
È già perché il concetto di amore non appare, giustamente, in questo tipo di programma: gli operatori che “sostengono emotivamente l’assistito” lo fanno,  presumo,  con il dovuto distacco che è richiesto e necessario in ogni tipo di intervento di aiuto. Il tutto tralasciando che dall’altra parte la persona può sviluppare una forma di amore e attaccamento con il rischio di arrivare a soffrire creandosi addirittura dei veri e propri castelli di sabbia che una volta caduti potrebbero arrecare più danni dell’astinenza in sé!
Personalmente credo che la sessualità abbia un valore simile nel caso di una persona disabile e di una normodotata, con questo intendo dire che quando questa rientra in un contesto ottimale, come conseguenza di una relazione affettiva profonda, allora può ritenersi sana.

Perché invece di creare esperti di sessualità non creiamo, in quanto professionisti del settore psicologico, interventi tesi a sostenere le difficoltà con cui possono confrontarsi alcuni disabili quando si tratta di porsi in relazione intima con qualcuno? Perché non creare interventi che favoriscano e sviluppino la capacità di socializzazione e di scambio comunicativo e che favoriscano la creazione di relazioni?
Mi sembra che sia un po’ come il discorso dello scegliere tra l’insegnare a coltivare la terra, a chi ha bisogno di mangiare; o l’offrire, al suo posto ogni tanto, qualcosa da mangiare.



  

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